La fortezza Europa contro gli ultimi del mondo

“Quello che succede ogni giorno non trovatelo normale. Di nulla sia detto: “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile” L’eccezione e la regola (Bertolt Brecht).

Non occorrono particolari doti da indovini per prevedere che l’agenda politica e il discorso pubblico dei prossimi mesi continuerà a essere occupato dalla “questione migranti”. Lo spettacolo violento, che è andato in scena ultimamente sotto forma di colpevolizzazione del migrante, è troppo redditizio per tutte le forze politiche, per non pensare di continuare a specularci sopra. I ceti politici, coadiuvati dal sistema dell’informazione dominante asservito, hanno costruito una sceneggiatura, sempre più affinata come tecniche e metodi, inquinata dal razzismo e dal classismo. Si sono mossi con lo scopo di scaricare sui migranti le tensioni sociali che derivano dall’impoverimento, dalla contrazione dei diritti e delle sicurezze sociali, della disoccupazione e della precarizzazione crescente. Tutti fenomeni che in verità procedono spediti da ben prima dei grandi flussi migratori.

Le principali forze politiche, consapevoli di non avere a disposizione programmi realmente capaci di fronteggiare la profondità della crisi, giocano la carta propagandistica dello straniero che destabilizza le sicurezze dei nativi. Una opzione a costo zero e dai sicuri consensi nel contesto di una società frammentata e annichilita da una crisi senza fine.

Mobilitare le emozioni più profonde, proiettare paura e disagio su “chi viene da fuori”, agire sulla dimensione irrazionale, agitare l’allarme ‘invasione’ vuol dire andare a eccitare aspetti profondi e istintivi della psicologia di massa di sicuro effetto. Infatti questa operazione ha dato innegabili risultati in termini di consensi di massa. Su questo terreno, sulla ricerca del consenso, la nostra battaglia può fare affidamento su speranze piuttosto ridotte.

D’altra parte la “questione migranti” mette in gioco i nostri valori fondanti e un discorso di classe irrinunciabile per chiunque ritenga necessario raccogliere l’eredità di un secolo e mezzo di lotte per la liberazione dai rapporti sociali capitalistici e per il superamento dei rapporti internazionali imperialistici. Schierarsi rispetto a questa catastrofe umanitaria per noi significa andare oltre il valore pur basilare della solidarietà. Implica la valutazione delle caratteristiche del neocapitalismo e dei suoi aspetti predatori, della creazione di milioni di moderni ‘dannati della Terra’, del carattere neo-colonialista delle classi dominanti globali, del drammatico rapporto fra economia e natura. Significa in sostanza posizionarsi rispetto alla barbarie del Capitale globale. Per tutti questi motivi la questione migranti è politicamente discriminante.

Una valutazione politica sui flussi migratori, dal nostro punto di vista, deve innanzitutto rivolgere l’attenzione alle regioni di partenza. Lo guardo, oggi tutto concentrato sui luoghi di arrivo, va spostato sulle condizioni in cui versano molte regioni del Sud del mondo. Solo in questo modo, ridefinendo il punto di osservazione è possibile avvicinarci alla comprensione dei cambiamenti in atto nel sistema globale. Rimettere quindi con i piedi per terra la narrazione dominante sulle vittime e sui carnefici, oggi intorbidita dalla retorica sull’emergenza e dall’egemonia delle destre.

Le migrazioni più recenti stanno mutando di carattere, segnalano le importanti trasformazioni intervenute nei meccanismi di accumulazione del capitalismo globale. In sostanza indicano il rafforzarsi dei tratti predatori del sistema, della produzione di profitti attraverso lo spossessamento come meccanismo di sopravvivenza del sistema stesso. In questo contesto i tradizionali concetti utilizzati fino a oggi per descrivere i movimenti migratori sono sempre di più in via di superamento. Sono in atto meccanismi di espulsione di un’intensità e di un’estensione tale che non hanno precedenti. Milioni di persone, che vivono nelle estese campagne e ammassati ai margini delle città del Sud del mondo in condizioni disperate, si muovono alla ricerca della sopravvivenza.

Nell’arco di due-tre decenni si sono sommati radicali cambiamenti climatici alle logiche di sfruttamento delle risorse naturali da parte delle grandi corporazioni del Nord del mondo che hanno prodotto una massiccia perdita di habitat. Intere regioni hanno perso la loro caratteristica di ambienti abitabili.

Le voci di questo disastro degli ambienti abitabili e coltivabili di vaste regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina sono diverse. Al primo posto si trova la riduzione continua degli spazi coltivabili che ha diverse cause, non ultimi i mutamenti climatici con eccessi di precipitazioni o di aridità. Relativamente recente è il land grabbing, letteralmente “l’accaparramento dei terreni” da parte di grandi gruppi industriali che operano nei mercati ricchi e di governi stranieri per soddisfare la domanda alimentare del proprio Paese. Un esempio tra tanti, non il più importante, di furto della terra, riguarda la ricerca di spazi adibiti alla coltivazione di piante da zucchero per le grandi filiere dell’alimentazione e della ristorazione che devono accaparrarsi a bassi prezzi le materie prime per produrre bibite, gelati, dolciumi e che coinvolge ad esempio multinazionali come la Coca Cola e la Pepsi Cola. L’introduzione dell’agricoltura commerciale intensiva di tipo capitalistico è un altro fattore di rapido impoverimento dei terreni e di avvelenamento di falde acquifere e suoli coltivabili. Ancora dobbiamo considerare l’espansione ininterrotta dell’attività estrattiva che deve rifornire anche la crescente richiesta di materie prime dell’industria elettronica. Inoltre anche in queste regioni del Sud del mondo procede spedito il consumo del suolo causato dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione.

Le stesse guerre moderne, spesso considerate come la causa principale dei flussi di profughi, hanno mutato mezzi e forme. I teatri di guerra lasciano dietro di sé enormi aree distrutte e avvelenate non più abitabili. Si tratta anche di guerre particolari che non cessano con il tradizionale trattato di pace, proseguono con conflitti asimmetrici che possono durare decenni, come testimoniano i casi dell’Iraq e dell’Afghanistan.

Le categorie attraverso cui si confrontano governi, opposizioni e mass media nelle loro retoriche sull’immigrazione non hanno più una corrispondenza con le realtà emergenti. Chi fugge, perché costretto, da territori espropriati in quale casella di immigrato va collocato? Chi costretto ad allontanarsi da terreni e risorse idriche avvelenate dalle attività delle grandi corporazioni agro-industriali, in che senso può essere etichettato come “migrante economico”? La distinzione fra ‘ profugo di guerra’ e ‘migrante economico’ in questo quadro è un artificio retorico per ignorare o nascondere una realtà esplosiva che non si esaurirà in breve tempo, perché è il risultato dei nuovi meccanismi di accumulazione del profitto del Capitale globale. Nuovi nella loro estensione e anche nelle forme.

La figura emergente del migrante non è più quella degli ultimi anni del 900, è sempre meno colui che si muove alla ricerca di una vita migliore, di un reddito da mandare in parte alla famiglia e con l’obiettivo del possibile ritorno nel paese di partenza. Oggi si afferma un soggetto mosso da una spinta vitale così forte che lo espone a mettere a rischio la propria vita pur di allontanarsi dai suoi luoghi. La figura di migrante che sta emergendo è quella di un soggetto alla ricerca della nuda sopravvivenza.

Il discorso pubblico dominante è oggi centrato sulla retorica dell’invasione dei migranti. In questo campo di discorso, egemonizzato da un pensiero politico tradizionalmente patrimonio delle destre, si radicano concezioni emergenzialistiche e sicuritarie che sono fatte proprie in modo trasversale da tutti gli schieramenti politici. Tutti impegnati in una rincorsa verso un pensiero di destra e a fomentare i sentimenti xenofobi per portare a casa risultati elettorali: dalla Lega, ovviamente, passando per i 5 Stelle, per arrivare ai provvedimenti di Minniti e, ultimo arrivato, Matteo Renzi.

Tenendo fermi i nostri valori della solidarietà nei confronti di una umanità trattata come un rifiuto della Terra e che non può essere degradata a dato statistico, bisogna comunque quantificare il fenomeno per smontare la costruzione della retorica dell’emergenza. I flussi migratori hanno certamente assunto dimensioni epocali. Vanno però scomposti per regioni geografiche. Gli ultimi dati disponibili ci trasmettono la realtà di movimenti migratori che per l’85% rimangono all’interno del gruppo dei Paesi poveri (sono migrazioni Sud-Sud). Solo il 6% circa del totale si dirige verso l’Europa. L’Italia, in quanto presenza di rifugiati in rapporto alla popolazione totale, non è certo ai primi posti. Per avere un’idea realistica di cosa può significare “invasione”, consideriamo il piccolo e povero Libano che con i suoi 4 milioni di abitanti, ospita 1,4 milioni di persone in fuga dalla guerra in Siria.

Poche considerazioni sulle rendite della retorica dello ‘stato d’eccezione’. Il regime dell’emergenza migranti consente a molti di incassare consistenti benefici in termini politici e di costruzione di un classico capro espiatorio. Lo stato di emergenza diffonde allarme e panico sociale, con punte di isteria collettiva, che vengono capitalizzate, dalle diverse sfumature di destra, come bottino elettorale.  Il loro repertorio, non contrastato seriamente, afferma un’egemonia soprattutto negli strati popolari abbandonati dalle sinistre storiche. Le bufale sui rischi epidemie, l’equazione immigrazione uguale terrorismo, il pericolo di violenza sulle donne (quando i dati ci dicono che la gran parte delle violenze sono consumate in famiglia), il discorso sull’invasione, l’inverosimile “minaccia all’identità religiosa, etnica e culturale” sono oramai tasselli di un discorso che è diventato egemonico nel pensiero comune.

Agitare lo stato d’eccezione vuol dire dissimulare le reali cause della disoccupazione, della oramai decennale proletarizzazione e dell’impoverimento di larghi segmenti della popolazione. Vuol dire archiviare dal discorso pubblico l’enorme spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto che si è consumato a partire dall’inizio degli anni 80. Significa occultare l’assenza di un piano industriale, il prevalere di un capitale predatorio e finanziario-speculativo, le delocalizzazioni e gli effetti dell’automazione sul mercato del lavoro.

Il regime dell’emergenza consente di evitare di affrontare un fenomeno destinato a durare, con politiche sistematiche che assicurino diritti e condizioni di vita degne. Consente ancora la creazione di un sistema di accoglienza improvvisato che fa affari sulla pelle degli ultimi.

Costruita la rappresentazione dell’assedio e la narrazione dell’invasione si procede a erigere le fortificazioni: muri, recinzioni, centri di detenzione, selezione fra buoni (profughi di guerra) e cattivi (i migranti cosiddetti economici che vengono a sottrarci le risorse disponibili).

La strategia comune messa in campo dai paesi dell’Unione Europea, e che si è andata definendo nelle ultime settimane, è quella di esternalizzare le frontiere spostandole in Africa dove bloccare partenze e flussi. Gli incontri di Parigi e l’ultimo vertice in Estonia hanno partorito politiche restrittive contro le Ong che operano nel Mediterraneo e stanziato finanziamenti per costruire lager in Libia e barriere ai bordi inferiori del Sahara, per stipulare accordi con Niger, Ciad, Etiopia, Sudan, Mali. Sono politiche finalizzate a finanziare fantocci o dittatori incaricati di fare il lavoro sporco per contenere in un regime di sopravvivenza, o far morire, persone lontano dai nostri sguardi (“aiutiamoli a morire a casa loro”). Gli esiti delle politiche di contenimento dell’Unione sono facilmente prevedibili: accresciuti rischi per chi tenterà comunque di fuggire dal proprio inferno, in mare, nel deserto e lungo nuove vie che verranno tracciate dai mercanti di uomini. Sistemato il fronte orientale con l’accordo fra l’Unione Europea e la Turchia, pagando un prezzo ignobile in termini finanziari e umanitari, si tratterebbe ora di affrontare il fronte meridionale. Tuttavia questo versante è molto più difficile a causa della distruzione e della frammentazione della Libia. Si punta quindi sul contenimento dei flussi in Niger, un paese di origine e di passaggio di migranti. Forse qui l’Unione Europea combatterà una guerra (questa volta non umanitaria) agli ultimi delegata a terzi. Commissionando a un regime corrotto lo stesso lavoro affidato a Erdogan, in una situazione certo più critica e pericolosa per la vita dei migranti. Il Niger è infatti uno dei paesi più poveri e insicuri del mondo.

L’opposizione alla Fortezza Europa si può realizzare solo mettendo in campo tutte le pratiche possibili del conflitto. Attrezzando lo scontro diretto contro l’Unione Europea contrastando gli accordi di Dublino, il sistema degli hot spot, il fiscal compact. Partendo dalla consapevolezza della relazione fra capitalismo dominante a livello mondiale ed espulsioni e flussi migratori, denunciando la sistematica disinformazione e gli abusi, esigendo il rispetto della giustizia sociale, sostenendo il diritto alla sopravvivenza e alla speranza, facendo circolare le esperienze concrete di resistenza e di lotta.

Il percorso della liberazione dalla barbarie del Capitale globalizzato passa dalla capacità di schierarsi con chi, come noi e peggio di noi, paga interamente il prezzo dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo. Lottiamo perché la storia ricominci!

“Quello che succede ogni giorno non trovatelo normale. Di nulla sia detto: “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile” L’eccezione e la regola (Bertolt Brecht).

Non occorrono particolari doti da indovini per prevedere che l’agenda politica e il discorso pubblico dei prossimi mesi continuerà a essere occupato dalla “questione migranti”. Lo spettacolo violento, che è andato in scena ultimamente sotto forma di colpevolizzazione del migrante, è troppo redditizio per tutte le forze politiche, per non pensare di continuare a specularci sopra. I ceti politici, coadiuvati dal sistema dell’informazione dominante asservito, hanno costruito una sceneggiatura, sempre più affinata come tecniche e metodi, inquinata dal razzismo e dal classismo. Si sono mossi con lo scopo di scaricare sui migranti le tensioni sociali che derivano dall’impoverimento, dalla contrazione dei diritti e delle sicurezze sociali, della disoccupazione e della precarizzazione crescente. Tutti fenomeni che in verità procedono spediti da ben prima dei grandi flussi migratori.

Le principali forze politiche, consapevoli di non avere a disposizione programmi realmente capaci di fronteggiare la profondità della crisi, giocano la carta propagandistica dello straniero che destabilizza le sicurezze dei nativi. Una opzione a costo zero e dai sicuri consensi nel contesto di una società frammentata e annichilita da una crisi senza fine.

Mobilitare le emozioni più profonde, proiettare paura e disagio su “chi viene da fuori”, agire sulla dimensione irrazionale, agitare l’allarme ‘invasione’ vuol dire andare a eccitare aspetti profondi e istintivi della psicologia di massa di sicuro effetto. Infatti questa operazione ha dato innegabili risultati in termini di consensi di massa. Su questo terreno, sulla ricerca del consenso, la nostra battaglia può fare affidamento su speranze piuttosto ridotte.

D’altra parte la “questione migranti” mette in gioco i nostri valori fondanti e un discorso di classe irrinunciabile per chiunque ritenga necessario raccogliere l’eredità di un secolo e mezzo di lotte per la liberazione dai rapporti sociali capitalistici e per il superamento dei rapporti internazionali imperialistici. Schierarsi rispetto a questa catastrofe umanitaria per noi significa andare oltre il valore pur basilare della solidarietà. Implica la valutazione delle caratteristiche del neocapitalismo e dei suoi aspetti predatori, della creazione di milioni di moderni ‘dannati della Terra’, del carattere neo-colonialista delle classi dominanti globali, del drammatico rapporto fra economia e natura. Significa in sostanza posizionarsi rispetto alla barbarie del Capitale globale. Per tutti questi motivi la questione migranti è politicamente discriminante.

Una valutazione politica sui flussi migratori, dal nostro punto di vista, deve innanzitutto rivolgere l’attenzione alle regioni di partenza. Lo guardo, oggi tutto concentrato sui luoghi di arrivo, va spostato sulle condizioni in cui versano molte regioni del Sud del mondo. Solo in questo modo, ridefinendo il punto di osservazione è possibile avvicinarci alla comprensione dei cambiamenti in atto nel sistema globale. Rimettere quindi con i piedi per terra la narrazione dominante sulle vittime e sui carnefici, oggi intorbidita dalla retorica sull’emergenza e dall’egemonia delle destre.

Le migrazioni più recenti stanno mutando di carattere, segnalano le importanti trasformazioni intervenute nei meccanismi di accumulazione del capitalismo globale. In sostanza indicano il rafforzarsi dei tratti predatori del sistema, della produzione di profitti attraverso lo spossessamento come meccanismo di sopravvivenza del sistema stesso. In questo contesto i tradizionali concetti utilizzati fino a oggi per descrivere i movimenti migratori sono sempre di più in via di superamento. Sono in atto meccanismi di espulsione di un’intensità e di un’estensione tale che non hanno precedenti. Milioni di persone, che vivono nelle estese campagne e ammassati ai margini delle città del Sud del mondo in condizioni disperate, si muovono alla ricerca della sopravvivenza.

Nell’arco di due-tre decenni si sono sommati radicali cambiamenti climatici alle logiche di sfruttamento delle risorse naturali da parte delle grandi corporazioni del Nord del mondo che hanno prodotto una massiccia perdita di habitat. Intere regioni hanno perso la loro caratteristica di ambienti abitabili.

Le voci di questo disastro degli ambienti abitabili e coltivabili di vaste regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina sono diverse. Al primo posto si trova la riduzione continua degli spazi coltivabili che ha diverse cause, non ultimi i mutamenti climatici con eccessi di precipitazioni o di aridità. Relativamente recente è il land grabbing, letteralmente “l’accaparramento dei terreni” da parte di grandi gruppi industriali che operano nei mercati ricchi e di governi stranieri per soddisfare la domanda alimentare del proprio Paese. Un esempio tra tanti, non il più importante, di furto della terra, riguarda la ricerca di spazi adibiti alla coltivazione di piante da zucchero per le grandi filiere dell’alimentazione e della ristorazione che devono accaparrarsi a bassi prezzi le materie prime per produrre bibite, gelati, dolciumi e che coinvolge ad esempio multinazionali come la Coca Cola e la Pepsi Cola. L’introduzione dell’agricoltura commerciale intensiva di tipo capitalistico è un altro fattore di rapido impoverimento dei terreni e di avvelenamento di falde acquifere e suoli coltivabili. Ancora dobbiamo considerare l’espansione ininterrotta dell’attività estrattiva che deve rifornire anche la crescente richiesta di materie prime dell’industria elettronica. Inoltre anche in queste regioni del Sud del mondo procede spedito il consumo del suolo causato dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione.

Le stesse guerre moderne, spesso considerate come la causa principale dei flussi di profughi, hanno mutato mezzi e forme. I teatri di guerra lasciano dietro di sé enormi aree distrutte e avvelenate non più abitabili. Si tratta anche di guerre particolari che non cessano con il tradizionale trattato di pace, proseguono con conflitti asimmetrici che possono durare decenni, come testimoniano i casi dell’Iraq e dell’Afghanistan.

Le categorie attraverso cui si confrontano governi, opposizioni e mass media nelle loro retoriche sull’immigrazione non hanno più una corrispondenza con le realtà emergenti. Chi fugge, perché costretto, da territori espropriati in quale casella di immigrato va collocato? Chi costretto ad allontanarsi da terreni e risorse idriche avvelenate dalle attività delle grandi corporazioni agro-industriali, in che senso può essere etichettato come “migrante economico”? La distinzione fra ‘ profugo di guerra’ e ‘migrante economico’ in questo quadro è un artificio retorico per ignorare o nascondere una realtà esplosiva che non si esaurirà in breve tempo, perché è il risultato dei nuovi meccanismi di accumulazione del profitto del Capitale globale. Nuovi nella loro estensione e anche nelle forme.

La figura emergente del migrante non è più quella degli ultimi anni del 900, è sempre meno colui che si muove alla ricerca di una vita migliore, di un reddito da mandare in parte alla famiglia e con l’obiettivo del possibile ritorno nel paese di partenza. Oggi si afferma un soggetto mosso da una spinta vitale così forte che lo espone a mettere a rischio la propria vita pur di allontanarsi dai suoi luoghi. La figura di migrante che sta emergendo è quella di un soggetto alla ricerca della nuda sopravvivenza.

Il discorso pubblico dominante è oggi centrato sulla retorica dell’invasione dei migranti. In questo campo di discorso, egemonizzato da un pensiero politico tradizionalmente patrimonio delle destre, si radicano concezioni emergenzialistiche e sicuritarie che sono fatte proprie in modo trasversale da tutti gli schieramenti politici. Tutti impegnati in una rincorsa verso un pensiero di destra e a fomentare i sentimenti xenofobi per portare a casa risultati elettorali: dalla Lega, ovviamente, passando per i 5 Stelle, per arrivare ai provvedimenti di Minniti e, ultimo arrivato, Matteo Renzi.

Tenendo fermi i nostri valori della solidarietà nei confronti di una umanità trattata come un rifiuto della Terra e che non può essere degradata a dato statistico, bisogna comunque quantificare il fenomeno per smontare la costruzione della retorica dell’emergenza. I flussi migratori hanno certamente assunto dimensioni epocali. Vanno però scomposti per regioni geografiche. Gli ultimi dati disponibili ci trasmettono la realtà di movimenti migratori che per l’85% rimangono all’interno del gruppo dei Paesi poveri (sono migrazioni Sud-Sud). Solo il 6% circa del totale si dirige verso l’Europa. L’Italia, in quanto presenza di rifugiati in rapporto alla popolazione totale, non è certo ai primi posti. Per avere un’idea realistica di cosa può significare “invasione”, consideriamo il piccolo e povero Libano che con i suoi 4 milioni di abitanti, ospita 1,4 milioni di persone in fuga dalla guerra in Siria.

Poche considerazioni sulle rendite della retorica dello ‘stato d’eccezione’. Il regime dell’emergenza migranti consente a molti di incassare consistenti benefici in termini politici e di costruzione di un classico capro espiatorio. Lo stato di emergenza diffonde allarme e panico sociale, con punte di isteria collettiva, che vengono capitalizzate, dalle diverse sfumature di destra, come bottino elettorale.  Il loro repertorio, non contrastato seriamente, afferma un’egemonia soprattutto negli strati popolari abbandonati dalle sinistre storiche. Le bufale sui rischi epidemie, l’equazione immigrazione uguale terrorismo, il pericolo di violenza sulle donne (quando i dati ci dicono che la gran parte delle violenze sono consumate in famiglia), il discorso sull’invasione, l’inverosimile “minaccia all’identità religiosa, etnica e culturale” sono oramai tasselli di un discorso che è diventato egemonico nel pensiero comune.

Agitare lo stato d’eccezione vuol dire dissimulare le reali cause della disoccupazione, della oramai decennale proletarizzazione e dell’impoverimento di larghi segmenti della popolazione. Vuol dire archiviare dal discorso pubblico l’enorme spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto che si è consumato a partire dall’inizio degli anni 80. Significa occultare l’assenza di un piano industriale, il prevalere di un capitale predatorio e finanziario-speculativo, le delocalizzazioni e gli effetti dell’automazione sul mercato del lavoro.

Il regime dell’emergenza consente di evitare di affrontare un fenomeno destinato a durare, con politiche sistematiche che assicurino diritti e condizioni di vita degne. Consente ancora la creazione di un sistema di accoglienza improvvisato che fa affari sulla pelle degli ultimi.

Costruita la rappresentazione dell’assedio e la narrazione dell’invasione si procede a erigere le fortificazioni: muri, recinzioni, centri di detenzione, selezione fra buoni (profughi di guerra) e cattivi (i migranti cosiddetti economici che vengono a sottrarci le risorse disponibili).

La strategia comune messa in campo dai paesi dell’Unione Europea, e che si è andata definendo nelle ultime settimane, è quella di esternalizzare le frontiere spostandole in Africa dove bloccare partenze e flussi. Gli incontri di Parigi e l’ultimo vertice in Estonia hanno partorito politiche restrittive contro le Ong che operano nel Mediterraneo e stanziato finanziamenti per costruire lager in Libia e barriere ai bordi inferiori del Sahara, per stipulare accordi con Niger, Ciad, Etiopia, Sudan, Mali. Sono politiche finalizzate a finanziare fantocci o dittatori incaricati di fare il lavoro sporco per contenere in un regime di sopravvivenza, o far morire, persone lontano dai nostri sguardi (“aiutiamoli a morire a casa loro”). Gli esiti delle politiche di contenimento dell’Unione sono facilmente prevedibili: accresciuti rischi per chi tenterà comunque di fuggire dal proprio inferno, in mare, nel deserto e lungo nuove vie che verranno tracciate dai mercanti di uomini. Sistemato il fronte orientale con l’accordo fra l’Unione Europea e la Turchia, pagando un prezzo ignobile in termini finanziari e umanitari, si tratterebbe ora di affrontare il fronte meridionale. Tuttavia questo versante è molto più difficile a causa della distruzione e della frammentazione della Libia. Si punta quindi sul contenimento dei flussi in Niger, un paese di origine e di passaggio di migranti. Forse qui l’Unione Europea combatterà una guerra (questa volta non umanitaria) agli ultimi delegata a terzi. Commissionando a un regime corrotto lo stesso lavoro affidato a Erdogan, in una situazione certo più critica e pericolosa per la vita dei migranti. Il Niger è infatti uno dei paesi più poveri e insicuri del mondo.

L’opposizione alla Fortezza Europa si può realizzare solo mettendo in campo tutte le pratiche possibili del conflitto. Attrezzando lo scontro diretto contro l’Unione Europea contrastando gli accordi di Dublino, il sistema degli hot spot, il fiscal compact. Partendo dalla consapevolezza della relazione fra capitalismo dominante a livello mondiale ed espulsioni e flussi migratori, denunciando la sistematica disinformazione e gli abusi, esigendo il rispetto della giustizia sociale, sostenendo il diritto alla sopravvivenza e alla speranza, facendo circolare le esperienze concrete di resistenza e di lotta.

Il percorso della liberazione dalla barbarie del Capitale globalizzato passa dalla capacità di schierarsi con chi, come noi e peggio di noi, paga interamente il prezzo dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo. Lottiamo perché la storia ricominci!