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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

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L'agenda Monti e l'agenda del capitalismo in crisi

L'agenda Monti e l'agenda del capitalismo in crisi

Con l'inizio dell'anno prende il via l'istituzionalizzazione delle politiche di espropriazione e di austerità prevista dal Fiscal Compact. Si tratta di politiche fatte proprie da tutte le principali forze partitiche, garantite anche dalla Carta d'Intenti firmata da PD e SEL. Questa realtà ci impone il definitivo abbandono di tutti quei terreni in cui siamo perdenti da sempre e ci spinge nella direzione della creazione di soggettività politiche autonome dai meccanismi di riproduzione del Capitale e dalle forme della politica dominante.

La sostanziale rimozione del Fiscal Compact dal dibattito politico, in particolare da quello pre elettorale, non è per nulla casuale. Questo silenziamento di un tema così centrale per il nostro futuro rimanda alla coscienza sporca di tutto l'arco politico, subalterno ai dettati del finanzcapitalismo, alla grande ristrutturazione capitalista che da anni si sviluppa in senso decisamente antiproletario. Il quadro di politica economica e sociale che governerà le nostre vite nei prossimi anni è emerso dalle trasformazioni che sono intervenute negli anni dal 2008 al 2012 nel nostro paese e ancor più a livello di Unione Europea. E' una cornice descritta con illuminante lucidità sul Sole 24 ore, il giornale dei padroni italiani, del 23 dicembre passato. Vale la pena seguirne i punti principali. Le trasformazioni a livello di “governo” dell'Unione Europea costringeranno “chi governerà dopo il voto a farlo in condizioni radicalmente diverse da quelle del passato”. Si è venuto a creare uno “spartiacque che divide un'epoca da un'altra” (un altro “dopo Cristo” dopo quello di Marchionne) e non sarà più possibile separare le “politiche interne da quelle europee”. La “politica di bilancio nazionale viene stabilita prima in Europa e poi approvata in Italia”. Il Fiscal Compact, che il governo tecnico (Monti-Pd-Udc-Pdl) ha approvato con una maggioranza superiore al 75%, il che impedisce anche un eventuale referendum, “stabilisce che le riforme di politica di uno stato membro (in particolare quelle che hanno una rilevanza budgetaria) siano prima discusse con gli altri stati membri all'interno del Consiglio Europeo e dell' Ecofin, quindi giustificate dalla commissione Europea (…) e solamente dopo (se approvate dai partner europei) riportate nel dibattito nazionale”. Vivremo in un'epoca in cui “ ci saranno sempre meno risorse da distribuire e sempre più scelte impopolari da fare” Il Fiscal Compact approvato dai paesi dell'Unione Europea, con il voto contrario del Regno Unito, prevede alcuni meccanismi che regoleranno i bilanci degli Stati con misure punitive che scatteranno in modo automatico per chi sarà inadempiente. Accenniamo ad alcuni aspetti significativi:


•    Tutti i paesi dovranno, in un tempo di 20 anni, rientrare in una soglia del debito pubblico non superiore al  60% del Pil. L'Italia attualmente è abbondantemente sopra il 120%, il che significa che (avendo il debito pubblico raggiunto i 2.000 miliardi di euro) ogni anno per 20 dovrà tagliare almeno 50 miliardi di euro al valore attuale della moneta. Ogni anno saremo sottoposti ad una “legge di stabilità” che colpirà pesantemente le condizioni di vita dei proletari.
•    Ogni Stato dovrà garantire il “pareggio di bilancio” altrimenti scatteranno meccanismi automatici di riequilibrio come ad esempio l'aumento dell'IVA. Il governo Monti, con maggioranza bulgara, ha già riformato l'art. 81 della Costituzione introducendo l'obbligo del pareggio di bilancio.
•    Sono inoltre previste ulteriori misure vincolanti di sorveglianza e punitive per chiunque non rispetti le norme del Fiscal Compact.


Dovremo fare i conti con un percorso di politica economica che ha ferrei paletti e che non sarà messo in discussione da nessuna forza che uscirà vincente dalle prossime elezioni politiche, qualunque sia il colore politico e qualunque sia l'alleanza politica che governerà nel tempo che viene. Nemmeno dal centrosinistra ovviamente, non possono esserci dubbi né incertezze su questo. La Carta d'Intenti PD-SEL garantisce gli impegni assunti con l'Unione Europea; addirittura Bersani, in un'intervista rilasciata poco tempo fa al Financial Time, oltre ad assicurare la piena attuazione del Fiscal Compact, si dice favorevole a rinforzarlo ulteriormente con un organismo di controllo ancor più rigido di quello attuale. Più realista del re. La Carta d'Intenti PD-SEL è del tutto compatibile con l'Agenda Monti, a quanto pare scritta direttamente da quell' Ichino che i proletari ben conoscono, o comunque da lui direttamente ispirata. L'esperienza del francese Hollande, la cui vittoria aveva mandato in visibilio i sinistri nostrani, è indicativa: l'approvazione del Fiscal Compact ha già fatto saltare quei “programmi di riforme” che l'hanno portato al governo causando il declino di fiducia che si registra nei suoi confronti. Le cucine del capitalismo nazionale ed internazionale ci vogliono propinare quest'altro  ventennale avvelenato. Non sono bastate le controriforme degli ultimi anni, decisamente peggiorate nell' annus orribilis del governo Monti, non è bastato l'esproprio di parte del salario diretto, del salario differito (riforma Fornero delle pensioni), l'attacco a quel poco che resta dei servizi sociali (salario indiretto). Né ci si accontenta delle disposizioni in tema di riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali con la pagliacciata dell'ASPI. Monti ha già mandato segnali precisi sul fatto che la sanità sarà la prossima carcassa da spolpare definitivamente: i 110 miliardi di spesa sanitaria sono il boccone più ambito. Tutta l'operazione viene condita in una salsa definita come innovatrice, quando non “rivoluzionaria”.  Monti, come per tutte le tipologie di liberismo che abbiamo conosciuto in questi trent'anni, si presenta come il progressista che si batte contro la “conservazione” di coloro che difendono quel (peraltro poco) che resta di diritti e livelli di reddito strappati nel ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta. Questo è quanto ci attende, il menù che vogliono costringerci ad ingoiare. Ignorando questo quadro non è pensabile che possa costituirsi alcun soggetto politico antisistemico in grado di valorizzare i conflitti che pure ci sono stati, ci sono e ci saranno in futuro. Le reazioni localizzate, sia pure aspre e generose, non riescono ad intaccare seriamente le politiche di austerità. Lo sciopero del Sud Europa del 14 novembre, per quanto non esaltante, per il modo in cui è stato indetto e gestito (e con alle spalle decenni di politiche concertative e di azzeramento della cultura del conflitto) è stato un segnale, timido ma indicativo di un percorso da fare. Non è più il tempo di “raccontarci delle storie”, altre illusioni non ci sono consentite. Per rompere questa “gabbia d'acciaio” dobbiamo essere intransigenti, “ce lo chiedono i tempi !”.

Tonino Miccichè: la memoria del presente
La crisi del sindacato - Note per un’inchiesta

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