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Non c'è dubbio che ogni evento rappresenta per così dire, il “foro d'uscita” di un processo che è avvenuto al di sotto della superficie della società attraverso progressive accumulazioni e, come quei fenomeni tettonici di crisi, come i grandi terremoti, a un certo punto emerge alla superficie in forma di evento. Cioè, non c'è dubbio che ogni evento rappresenta, per certi versi, la spia di processi invisibili accumulatisi nel tempo e poi bruscamente emersi alla superficie. […]

 

E tuttavia – in questo sta la problematicità del rapporto ­– gli eventi non sono strettamente riconducibili ai processi: pur esprimendo questi processi, sono anche portatori di un novum, di un qualche elemento che è irriducibile alla serialità storica e che ne spiega l'esplodere lì ed ora.

In ogni evento, in sostanza, si esprime una processualità e si esprime una istantaneità del fenomeno: si esprime una ripetitività di atti e di gesti nel tempo e si esprime l'irrompere dell'inedito. Ogni evento, in sostanza, esprime un processo di accumulazione ma anche l'esistenza di un detonatore irriducibile alla semplice processualità. […]

Luglio 1962. Torino, una Torino da lungo tempo segnata dal silenzio sociale. Perlomeno dalla metà degli anni Cinquanta la situazione sociale a Torino era stata “normalizzata”: la sconfitta della Fiom, del sindacato di classe alla Fiat, sancisce la “normalizzazione” politica degli stabilimenti torinesi.

 

Nel resoconto dell'amministrazione di quell'anno – del 1955 – Valletta, allora presidente e amministratore delegato, poteva dichiarare definitivamente sconfitta la componente conflittuale all'interno della Fiat, quelli che venivano i “distruttori”, e poteva dichiarare pacificata la situazione in fabbrica. Per lungo tempo, per almeno sette anni, a Torino la conflittualità sociale si genera alla periferia del sistema produttivo, nelle piccole e medie industrie torinesi, mentre il “gigante Fiat” è un gigante muto, non esprime conflitto, non esprime cultura sindacale, apparentemente alla superficie.

 

Nel 1962 scade il contratto nazionale dei metalmeccanici. Le prime giornate di sciopero indette dai sindacati confederali, vedono il fallimento delle iniziative Fiat, vedono la Fiat rimanere al di fuori della mischia, per così dire, poi, di colpo, all'inizio di luglio, la situazione si scalda. Due successivi scioperi hanno una imprevista e straordinaria riuscita, un successo inatteso da parte degli stessi organizzatori degli scioperi. Proprio nel pieno di questo processo di “risveglio” della fabbrica, uno dei tre sindacati confederali, la Uilm, sigla un accordo separato con la direzione e si sottrae alle iniziative di lotta.

 

Ci si aspetta che questo significhi il ritorno di quel soggetto collettivo al silenzio. Invece succede l'opposto: non solo lo sciopero riesce, ma un gruppo consistente di lavoratori reagisce alla situazione, marcia sul centro, si reca in piazza Statuto, dove era la sede del sindacato colpevole d'avere rotto il fronte operaio, lo cinge d'assedio, interviene la polizia, si accendono delle scaramucce, poi degli scontri sempre più violenti e sempre più estesi e per tre giorni a Torino, in piazza Statuto, si ripropone, in qualche modo, il rito del conflitto di piazza. In un unico posto, su un unico palcoscenico, giorno dopo giorno i protagonisti si ripresentano all'appello e ripetono la rappresentazione del conflitto radicale. Le organizzazioni del movimento operaio – Il Partito comunista, la Camera del lavoro, la Cgil – sconfessano l'iniziativa.

Preoccupati di essere identificati con il “disordine” stigmatizzano i fatti e invitano a isolarne i protagonisti. Lo stesso gruppo più radicale, quello che si riconosceva nei “Quaderni rossi”, diretti allora da Rainero Panzieri, una figura importante nel movimento sindacale torinese, ma soprattutto nella sinistra non ortodossa torinese, prende le distanze dalla violenza di piazza, pur invitando a riflettere sulla composizione sociale dei dimostranti.

[…] Il risveglio del 1962 può dunque essere indubbiamente letto come l'effetto di un lungo processo di revisione culturale da parte delle avanguardie sindacali e, in generale, del movimento sindacale italiano. E questo ci spiegherebbe la dimensione della processualità, e il perché dopo un lungo silenzio questo soggetto collettivo torni a parlare, ma non ci spiega né la repentinità del fenomeno né la sua violenza, la sua virulenza, la forza con cui questo irrompe alla superficie e che è tale da spiazzare le stesse avanguardie politiche che lo avevano evocato.

 

Cosa emerge alla superficie torinese in quel luglio 1962? In realtà, emerge una profonda trasformazione della composizione sociale e della composizione tecnica della fabbrica consumatasi in quegli anni, [un] processo [che] avviene nel corso degli anni Cinquanta; avviene attraverso l'emarginazione, per certi versi, del vecchio operaio di mestiere, del vecchio operaio qualificato – che era stato la spina dorsale del movimento socialista e comunista all'interno della fabbrica – e attraverso l'immissione di nuove figure operaie, figure importate, per così dire (le prime ondate di immigrazione dal sud), figure di lavoro scarsamente qualificate, erogatori di lavoro semplice, privo di qualificazione.

 

Sono questi che irrompono tra il 1956 e il 1962 nei reparti della Fiat, e che vengono immessi in una struttura di lavoro fortemente meccanizzata e fortemente centrata sulla catena di montaggio.

[…] In piazza Statuto vengono alla superficie i nuovi lavoratori della catena di montaggio, che erano un soggetto sconosciuto, per certi versi, nella Torino degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Erano un soggetto sconosciuto, che era cresciuto silenziosamente all'interno della fabbrica, ma che non aveva, fino ad allora, preso la parola né con linguaggio sindacale né per comunicare alla città la propria esistenza: erano lavoratori invisibili, o meglio: visibili solo nella forma dell'immigrato, visibili a Porta Palazzo, nei crocchi che si formavano la domenica, visibili a Porta Nuova, quando arrivavano con la valigia di cartone, visibili nel labirinto delle stanze a pagamento in cui dormivano a turno, le otto ore di notte quelli del turno di giorno e le otto ore di giorno quelli del turno di notte.

 

Ecco: era questo “popolo delle tenebre”, che si era formato all'interno della fabbrica e che invadeva ora la scena urbana e la invadeva nell'unica forma che conosceva, quella della jacquerie, della rivolta, ricordo dell'incendio del municipio o del lancio dei sassi. Era questo il nuovo soggetto, che poi, dopo che verrà chiuso il contratto del 1962, tornerà al silenzio per altri sei lunghi anni, e che riemergerà, in questa volta organizzata, con un proprio linguaggio, con un proprio discorso, nell'autunno caldo, nel biennio 1968-1969.

Piazza Statuto esprime sia il lento processo di revisione sindacale del rapporto con la fabbrica, sia il violento processo di formazione di una figura operaia che verrà definita dai sociologi, e anche politicamente, l'“operaio massa”, l'operaio massificato, l'operaio della catena di montaggio, l'operaio senza una qualificazione determinata. […]

 

Credo che noi possiamo vedere nel '77 il punto di conclusione di quel processo che il 1962 aveva reso molto evidente, la chiusura del cerchio. E possiamo incominciare a considerare gli anni Ottanta e Novanta esplicitamente come quelli del periodo post-fordista, rispetto ai quali le forme dell'aggregazione sociale, le forme della rappresentanza politica, i linguaggi stessi con cui la società può comunicare, rimangono tutti da inventare.

                                                                                                             MARCO REVELLI

 

 

Tratto da da Id., Le spie ricorrenti del disagio sociale: jacqueries, rivolte urbane, proteste giovanili, subculture della protesta, in C. Dellavalle (a cura di), Repubblica, Costituzione, trasformazione della società italiana. 1946-1996 : percorsi di cittadinanza, Milano, F. Angeli, 2000