La lotta contro il capitale è mondiale

Ecco, quando mollerete gli ormeggi da questo angusto orizzonte fatto da individualità "patriottiche" che segmentano e scelgono i popoli a cui accompagnarsi, forse e dico forse, ci potremo rincontrare. Fino ad allora meglio questi compagni di strada.

– Quando Trump parla di recuperare le frontiere degli Stati Uniti, dice che è quella col Messico, ma lo sguardo del finquero punta al territorio Mapuche. La lotta dei popoli originari non può né deve limitarsi al Messico, deve alzare lo sguardo, l’ascolto e la parola ed includere tutto il continente, dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco.

– Quando per voce del Subcomandante Insurgente Moisés, diciamo che il mondo intero si sta trasformando in una finca ed i governi nazionali in capoccia che simulano potere e indipendenza quando il padrone è assente, non solo stiamo segnalando un paradigma con conseguenze teoriche. Stiamo segnalando anche un problema che ha conseguenze pratiche per la lotta. E non ci riferiamo alle lotte “grandi”, quelle dei partiti politici e dei movimenti sociali, ma a tutte le lotte. Lo zapatismo, come pensiero libertario, non riconosce il Río Bravo e Suchiate come limiti alla sua aspirazione di libertà. Il nostro “per tutti, tutto” non riconosce frontiere. La lotta contro il Capitale è mondiale.

– Tra le varie opzioni, la nostra posizione è stata ed è chiara: non esiste un capoccia buono. Ma comprendiamo che qualcuno, la maggior parte delle volte come terapia consolatoria, faccia distinzione tra i cattivi e i peggiori. Ok, chi poco fa, di poco o niente si accontenta.

Ma questi dovrebbero cercare di capire che chi rischia tutto, vuole tutto. E per noi, zapatiste e zapatisti, il tutto è la libertà.

Non vogliamo scegliere tra un padrone crudele ed uno buono, semplicemente non vogliamo padroni.

Ma, vi dicevo che ci sono molte cose di cui non riusciamo a spiegare il perché, ma sono così.

Per esempio, l’individualità e il collettivo.

La forma collettiva è meglio che individuale. Non sono in grado di spiegarvi scientificamente perché, ed avete tutto il diritto di accusarmi di esoterismo, o di qualcosa di altrettanto orribile.

Quello che abbiamo visto nel nostro limitato ed arcaico orizzonte, è che il collettivo può tirare fuori e far brillare la parte migliore di ogni individualità.

Non è che il collettivo ti renda migliore e l’individualità ti renda peggiore, no. Ognuno è quel che è, un complesso intrico di virtù e difetti (per quello che significhino le une e gli altri), ma in determinate situazioni affiorano le une o gli altri.

Provateci almeno una volta. Non vi succederà niente. In ogni caso, se siete così meravigliosi come pensate di voi stessi, allora rafforzerete la vostra convinzione che il mondo non vi merita. Ma forse troverete dentro voi delle abilità e capacità che non sapevate di avere. Provate, se non vi piace potete sempre tornare al vostro account di tuiter, al vostro muro di feisbuc, e da lì continuare a dettare al mondo intero quello che si deve essere e fare.

Ma non è per questo che ora vi suggerisco di lavorare e lottare in collettivo. Il fatto è che sta arrivando la tormenta. Quello che si vede adesso non è nemmeno lontanamente il punto più alto. Il peggio deve arrivare. E le individualità, per quanto brillanti e capaci siano, non potranno sopravvivere se non con altri, altre, otroas.

Noi abbiamo visto come il lavoro collettivo non solo ha permesso la sopravvivenza dei popoli originari alle diverse tormente terminali, ma anche a progredire quando sono comunità, e sparire quando ognuno guarda al proprio benessere individuale.

Per quanto riguarda le comunità indigene zapatiste, il lavoro collettivo non l’ha portato l’EZLN, neanche il cristianesimo, né Cristo né Marx hanno avuto a che fare con questo, ma nei momenti di pericolo, di fronte a minacce esterne, per le feste, la musica e il ballo, la comunità nei territori dei popoli originari diventa un solo collettivo.

È lì da vedere.

È tutto qui.

Molte grazie. Oltre a quelle che mi adornano.

SupGaleano.

Aprile 2017