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Mobilitazione dei detenuti: storia di uno sciopero vittorioso

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Riceviamo e pubblichiamo da Pacific Standard

Sul finire dello scorso anno, i detenuti di un istituto penitenziario di massima sicurezza fuori Minneapolis hanno partecipato ad uno sciopero durato una settimana per protestare contro penalizzanti cambiamenti amministrativi, ottenendo l’accoglimento delle propria richieste.

Dal 30 novembre al 4 dicembre, più di trecento dei mille detenuti maschi, presso l’istituto penitenziario “Rush City”, hanno scioperato contro una proposta di cambiamento della distribuzione della mensa. La mensa, attraverso cui i detenuti acquistano ogni tipo di merce necessaria, dal cibo ai medicinali fino all’elettronica, ha da sempre smistato gli ordini in una settimana, ma a seguito di un cambiamento di procedure interne i tempi di attesa sarebbero raddoppiati. A Rush City, le questioni legate alla mensa sono da sempre centrali nell’organizzazione carceraria, con le frequenti accuse da parte dei detenuti di ingiustificati aumenti dei prezzi. 

In opposizione alle nuove politiche di rifornimento della mensa, i detenuti hanno rifiutato di uscire dalle celle per svolgere le mansioni interne designate o partecipare a attività lavorative esterne. Alcuni di questi lavori riguardano l’organizzazione interna della struttura detentiva, come l’impiego nelle cucine o nella scuola, mentre altri detenuti sono impiegati in “lavori manifatturieri” presso appaltatori esterni, come la Anagram Baloons, azienda di base in Minnesota che vende bomboniere. I detenuti hanno riportato che centocinquantacinque lavoratori provenienti dal penitenziario hanno partecipato allo sciopero.

Con quasi un terzo della popolazione coinvolta nella protesta, gli amministratori di Rush City hanno presto dismesso le nuove procedure di mensa. Il 6 dicembre – solo due giorni dopo la conclusione dello sciopero – gli agenti penitenziari hanno notificato l’abbandono della nuova agenda, e dal 10 dicembre la mensa ha ripreso a funzionare come in precedenza. Il successo di questa protesta si inscrive in un filone di mobilitazioni che ha visto i detenuti impegnarsi nel portare avanti le più disparate istanze attraverso l’organizzazione diretta, come lo sciopero nazionale messo in atto pochi mesi fa, che chiedeva – e ha ottenuto in stati come la Florida – il riconoscimento del diritto di voto per i felons (detenuti condannati per reati considerati gravi cui veniva negato il diritto di voto anche dopo aver scontato la pena nda).

Pacific Standard ha intervistato due detenuti di Rush City, Antonio Williams e Demetrius Robbins, riguardo allo sciopero, alla sua organizzazione e ai loro piani futuri. Con la collaborazione di Incarcerated Workers Organizing Committee (IWOC), un sindacato dei detenuti (parte degli IWW, International Workers of the World nda), la discussione è avvenuta tramite email e J-Pay, un internet provider per conto terzi che si occupa di addebitare i costi dei servizi di comunicazione ai detenuti. Williams e Dobbins hanno fornito risposte congiunte.

Come è nato lo sciopero presso il penitenziario Rush City?
L’ultima goccia è stato il tentativo da parte dell’amministrazione di ritardare la distribuzione della mensa di un ulteriore settimana. In realtà l’amministrazione penitenziaria ha una lunga storia di omissioni nella punizione dei secondini responsabili di comportamenti non appropriati e non professionali. Rush City è estremamente negligente riguardo a tale fenomeno, e questo è stato uno degli elementi di fondamentale importanza.

Come è stato organizzato lo sciopero? I detenuti hanno dovuto coordinarsi tra di loro in segreto?

Lo sciopero è stato efficace perché è riuscito a coinvolgere le varie etnie presenti e le diverse gang. Un gruppo ristretto ha lavorato assieme per pianificare il modo più efficace per condurre una protesta non violenta. E poi sì, lo sciopero è stato organizzato in segretezza – non poteva essere altrimenti. In passato, chiunque venisse individuato come un organizzatore sarebbe stato certamente mandato in cella di isolamento. Antonio è stato mandato in isolamento il giorno prima dello sciopero e messo in “segregazione amministrativa” per aver invitato altri detenuti ad informarsi riguardo alla nuove politiche dell’amministrazione

Quanti detenuti sono stati coinvolti dallo sciopero?

Circa trecento detenuti hanno partecipato allo sciopero. Dei detenuti adibiti al lavoro esterno, circa duecento in totale sono rimasti dentro, senza presentarsi alle sedi di lavoro concordate. Inoltre una buona parte di noi è andata al lavoro coscientemente sabotando la produzione. Così come alcuni detenuti del reparto educativo hanno preferito rimanere in cella, molti nelle cucine hanno seguito il loro esempio, rendendo il lavoro dei secondini molto difficile.

Qual è stata la risposta dell’amministrazione del penitenziario?

In risposta alla protesta pacifica, si è tenuta una riunione tra i rappresentanti dei detenuti e i dirigenti del penitenziario, tra cui il direttore e altri alti ufficiali. Come risultato, in un lasso di tempo assai breve, l’amministrazione ha rilasciato un promemoria in cui si diceva che la distribuzione della mensa sarebbe rimasta la stessa, con l’eccezione di piccoli cambiamenti di agenda rispetto alla distribuzione di materiale elettronico. 

Quanto è durato lo sciopero?

Lo sciopero è iniziato il 30 novembre ed è durato fino al 4 dicembre. Sebbene alcuni alti dirigenti non siano certo stati contenti dell’azione che avevamo deciso di intraprendere, il direttore sembra aver preso seriamente le nostre preoccupazioni.

Gli scioperanti hanno ricevuto supporto dall’esterno?

Sì, i detenuti hanno potuto contare sul supporto da parte degli IWOC, delle famiglie e degli amici. Le persone dall’esterno hanno telefonato alla prigione e agli uffici centrali del dipartimento penitenziario dando voce alle loro preoccupazioni. E credo veramente che se l’IWOC non avesse coinvolto i media, il direttore non avrebbe preso seriamente in considerazione i detenuti. E senza la dimostrazione che i detenuti potevano contare su un ampio supporto, Antonio sarebbe ancora in isolamento.

Avete piani per mobilitazioni future?

I detenuti hanno preso coraggio da questa mobilitazione perché hanno avuto dimostrazione di cosa sia possibile ottenere con un minimo di unità…la nostra lotta comunque non è finita. Non c’è ancora un sistema che sia davvero in grado di controllare e punire i secondini colpevoli di cattiva condotta e atteggiamenti non professionali. Siamo ancora espropriati economicamente a causa degli alti prezzi della mensa e delle condizioni lavorative “schiaviste”.

Inoltre i programmi rieducativi sono ancora inadeguati. Migliaia di persone che usufruiscono della libertà condizionale vengono rimandate in carcere a causa di violazioni tecniche, senza aver commesso alcun crimine. Agli ergastolani viene ancora negata la possibilità di libertà sorvegliata, anche dopo aver scontato venti o trenta anni seguendo scrupolosamente le indicazioni della commissione per la libertà vigilata. Quindi sì, abbiamo ancora molto lavoro da fare, e la maggioranza di noi vuole procedere in modo pacifico, per non gettare ulteriore benzina sul fuoco. Non siamo animali senza cervello come veniamo rappresentati agli occhi dell’opinione pubblica.

Arvind Dilawar

Articolo e intervista originariamente pubblicati su Pacific Standard

Traduzione a cura di Lorenzo

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