bielorussia

Quando ragioniamo sui recenti fatti della Bielorussia corriamo due rischi. Da una parte sostenere acriticamente il governo di Lukashenko seguendo una vulgata secondo la quale vanno sempre difese tutte le posizioni che si oppongono all’imperialismo e all’Occidente, oppure sostenere in modo acritico le opposizioni senza comprendere da chi siano composte e quali finalità le spingano all’opposizione di piazza.

Interveniamo solo ora sulla questione bielorussa perché abbiamo voluto evitare un comportamento da tifosi dell’una o dell’altra posizione. È più importante capire quanto sta succedendo in Bielorussia, affrontando, da un punto di vista internazionale e sociale, i problemi che agitano i paesi dell’ex Urss. Non si tratta di elogiare il ruolo di Putin e della Russia, né tantomeno di quello di opposizioni orientate verso politiche neoliberiste, sostenute dall’opinione pubblica vicina a Trump. Prendendo anche le distanze dalle sanzioni dell’Unione Europea, sanzioni che spesso sono state orientate a piegare la resistenza dei popoli, oppure a imporre diktat per imporre privatizzazioni, distruzioni del welfare, politiche di austerità.

Se guardiamo ai numeri delle piazze degli ultimi giorni ci rendiamo conto che il consenso di Lukashenko non è minoritario. C’è questo vecchio vizio delle potenze occidentali di considerare illegittime quelle elezioni vinte da chi persegue obiettivi antitetici al libero mercato. È accaduto in America Latina, accade ora in Bielorussia.

Ma da qui a sostenere Lukashenko, evitando di affrontare i nodi salienti della contraddizione fra capitale e lavoro nel Paese, corre una grande differenza. Negli scioperi si agita una corrente che vorrebbe ripetere l’esperienza di Solidarnosc, un’esperienza che è partita da legittime rivendicazioni operaie per finire nelle mani del papato, degli Stati Uniti e della destra più retriva e conservatrice.

Di sicuro negli ultimi anni il Paese è attraversato da una crisi economica e sociale, da processi di privatizzazione che ad esempio hanno portato negli ultimi anni a proporre una tassa a chi non avesse raggiunto un certo numero di giornate lavorative nel corso dell’anno. Una tassa a carico dei disoccupati, in un Paese dove i settori pubblici sono stati dominanti, ma che oggi cominciano a subire i colpi delle privatizzazioni.

Negli anni passati la classe lavoratrice godeva di condizioni relativamente buone, tuttavia queste sicurezze si sono disgregate, lo sviluppo economico ha subito un rallentamento e sono cresciute le disuguaglianze. Questa situazione ha creato un malessere che è cresciuto con la diffusione del covid.

Da che parte stare allora? Sicuramente non dalla parte di Lukashenko, né dalla parte degli oppositori filo-occidentali spesso travestiti da blogger e da sindacalisti sul modello di Walesa.

Sicuramente vanno sostenuti gli scioperi promossi in molte aziende e luoghi di lavoro sui temi delle condizioni salariali, sperando che questi scioperi forniscano una sponda alle rivendicazioni legittime della classe lavoratrice.