clima

La guerra è fossile

Simone Ogno 25 Marzo 2022

L’industria dei combustibili fossili, oltre a produrre disastri con le conseguenze dei cambiamenti del clima, alimenta situazioni di violazione sistemica dei diritti umani e instabilità sociopolitica, ma anche i conflitti armati. Un concetto che la società civile e i movimenti per la giustizia ambientale e climatica denunciano da tempo e che ora è emerso con forza dopo lo scoppio della guerra in Ucraina

Foto tratta dal fb di Andrea Russo

L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa ha fatto emergere con forza nel dibattito pubblico numerose questioni, alcune delle quali troppo spesso sottaciute da governi, multinazionali energetiche e gruppi finanziari. Questioni che la società civile e i movimenti per la giustizia ambientale e climatica denunciano da tempo: l’industria dei combustibili fossili alimenta situazioni di violazione sistemica dei diritti umani e instabilità sociopolitica, finanche conflitti armati.

Inoltre, da quando l’Unione europea ha deciso di adottare le prime sanzioni economiche nei confronti della Federazione russa, si è compreso realmente quanto il Vecchio continente dipenda dagli idrocarburi prodotti in altri paesi. Una novità solo agli occhi di chi non ha mai voluto vedere.

Le risposte istituzionali non hanno fatto che reiterare questa volontà di non vedere, con il rischio di spingere numerosi paesi europei da una dipendenza a un’altra – soprattutto l’Italia.

Così, nelle ultime due settimane il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si sono recati a fare ulteriore spesa di gas in Algeria, Qatar, Congo, Angola e Mozambico. Paesi con i piedi d’argilla proprio a causa dell’ingombrante presenza dell’industria fossile. Potremmo definirlo un ‘tour del gas insanguinato’, e non sembra essere finito.

La finanza italiana, guidata da Intesa Sanpaolo e UniCredit – così esposte al business fossile russo, può iniziare così ad aprire il portafoglio e orientarlo verso altri mercati. D’altronde, gli impegni per il clima dei due gruppi bancari sono così deboli da permettere l’espansione del settore del petrolio e gas, finanziando nuove esplorazioni, nuova produzione e nuovi progetti per il trasporto di idrocarburi.

Prestiti e investimenti che stringeranno il cappio della prossima dipendenza fossile italiana, sulla quale si affaccia anche il gas del Permian Basin statunitense, prodotto in gran parte attraverso l’utilizzo di pratiche ultra-invasive come il fracking o la trivellazione orizzontale. Si stima che, entro il 2050, la combustione di tutte le riserve di petrolio e gas dell’areapossa produrre l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2. Naturalmente, i profitti derivanti dagli interessi sui prestiti e, soprattutto, il dividendo derivante dalle azioni nelle società coinvolte in questo sporco business rappresentano numeri più appetibili. Con buona pace dei consumatori, le cui bollette continueranno a essere proibitive, visto il costo maggiore del gas statunitense.

Per i paesi del Sud globale, questa nuova corsa ai combustibili fossili non farà altro che aggravare la ‘maledizione delle risorse naturali’. Molti di questi paesi ‘maledetti’ si trovano nel continente africano. Sono quelli a cui hanno fatto visita Di Maio e Descalzi, ai quali possiamo aggiungere l’Egitto – per varie ragioni paradossale sede della prossima conferenza sul clima – e la Nigeria. Senza dimenticare Uganda e Tanzania, su cui pende la scure dell’East African Crude Oil Pipeline: se costruito, con i suoi 1443 km sarebbe l’oleodotto riscaldato più lungo del mondo. Cresceranno così i numeri di quelle che Nnimmo Bassey (Health of Mother Earth Foundation) e Anabela Lemos (Justiça Ambiental/Friends of the Earth Mozambique) hanno definito ‘zone di sacrificio e persone di sacrificio’.

E chissà che questa corsa non dia nuova vita al gasdotto EastMed-Poseidon. Partendo da Cipro per trasportare il gas prodotto al largo di Israele e di Cipro stessa, il progetto di Edison e Depa prevede un segmento finale destinato ad approdare in Italia, più precisamente in Puglia, come la TAP di Snam. Lo scorso dicembre, Consiglio e Parlamento europeo hanno confermato la presenza di EastMed nel regolamento TEN-E, che individua i progetti strategici da finanziare per il settore energetico. E se, a causa degli interessi intorno al gasdotto e alla produzione di gas nel Mediterraneo orientale, Erdoğan decidesse di allargare l’occupazione turca di Cipro?

A proposito di TAP: se non vogliamo il gas russo perché Putin è un dittatore, perché accettiamo il gas del suo fedele alleato azero, il dittatore Ilham Aliyev?

Gas che, qualsiasi sia la provenienza, avrà quindi bisogno di nuovi gasdotti e terminal di GNL (gas naturale liquefatto) per arrivare in Italia. Un settore in cui Eni e Snam la fanno da padrone. Le due società sono infatti presenti sia come azionisti delle diverse infrastrutture per l’importazione del gas che come operatori di diversi gasdotti.

Una proliferazione di progetti in contesti ‘a rischio’ quindi, in un contesto globale sempre più attraversato da conflitti di varia origine. Il contesto ideale per le agenzie di credito all’esportazione, cioè gli assicuratori pubblici che coprono dai rischi politici e commerciali le multinazionali di un determinato paese nel loro export e investimenti esteri. Un ambito in cui l’italiana SACE ricopre un ruolo di primo piano, avendo già assicurato numerose operazioni macchiate di sangue, ad esempio in Nigeria, Mozambico, Egitto e Russia. E se qualcosa dovesse andare male? Nessun problema: SACE rimborsa le aziende. Oppure rimborsa le banche che hanno prestato soldi alle aziende per i loro progetti esteri. In entrambi i casi con i nostri soldi: profitti privati, perdite pubbliche.

Un quadro da tempesta perfetta, la cui cornice è rappresentata dalla tassonomia europea, cioè il regolamento europeo in via di approvazione che definirà quali progetti possano essere definiti green dalle istituzioni finanziarie: il testo finale sembra sancire che il gas, combustibile fossile dei nostri tempi, lo sia. Nello specifico si parla di centrali, ma questo non farà altro che accelerare la corsa a nuove esplorazioni e nuova produzione di gas per alimentarle.

C’è però chi non ha mai voltato lo sguardo dall’altra parte: tutte le persone che parteciperanno allo sciopero globale per il clima di oggi, 25 marzo, chiamato da Fridays for Future. Milioni di persone incroceranno le braccia e scenderanno per strada, denunciando come il “catastrofico scenario climatico che stiamo vivendo è il risultato di secoli di sfruttamento e oppressione attraverso il colonialismo, l’estrattivismo e il capitalismo, un modello socio-economico essenzialmente difettoso che deve essere sostituito con urgenza”.

Scioperi, azionariato critico, inchieste, mobilitazioni, picchetti, chiusura dei conti corrente. E poi la creazione di comunità solidali che mettano al centro i bisogni delle persone e non quelli dell’industria fossile per la produzione e il consumo di energia. Perché, appunto, il problema è la dipendenza dai combustibili fossili. Il momento è ora, gli strumenti di cui possiamo dotarci tanti. Resta aggiornato, iscriviti alla newsletter

Articolo pubblicato da Comune-info in collaborazione con Recommon.org