Linvolucro-di-una-bomba-nucleare-B-83-1024x576-1

Chi finanzia le testate nucleari

Valentina Neri
12 Gennaio 2023

Abbiamo finito le armi. Appena un paio di giorni fa, l’affermazione shock del segretario generale della Nato – che ribadiva sostegno illimitato all’eroica resistenza ucraina ma poi spiegava, desolato, ch’era ormai stato raschiato quasi ogni fondo di barile dell’inesauribile santabarbara alleata – deve aver gettato nel panico più d’un ministro della difesa con annesso coro mediatico al seguito. Una tragedia. Il problema è che, con la crisi, per le armi si spende troppo poco. Lo precisava, puntuale, in un’intervista a Radio Rai, non l’insaziabile Guido Crosetto – che lo ripete in modo ossessivo fin dai primi vagiti nella culla – ma perfino l’ex ministra dei governi Renzi e Gentiloni, Roberta Pinotti, un’autorità ben più indipendente in materia. Sarà vero? Non parrebbe. Per fare solo un esempio “estremo”, tra prestiti e finanziamenti, in poco più di due anni e mezzo – dall’inizio del 2020 al luglio 2022 – i produttori di armi nucleari hanno raggranellato la modica cifra di 746 miliardi di dollari. Questo articolo, frutto del sempre prezioso lavoro della redazione di Valori, aiuta a farsi un’idea piuttosto precisa di chi utilizza montagne di denaro – soprattutto negli Usa, ma c’è un posticino rilevante anche per gli investitori “nazionali” (come piace dire al premier) – per contribuire, certo a modo suo, al raggiungimento di una pace durevole. Molto durevole, quasi eterna.

 Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, nel dibattito internazionale è riapparso un argomento che speravamo di avere archiviato per sempre: la minaccia nucleare. Non accadeva dalla crisi dei missili di Cuba del 1962, esattamente sessant’anni prima. Se le armi nucleari continuano a esistere è perché nove Stati le posseggono ancora. Perché decine di imprese private producono le componenti necessarie per i loro arsenali. E perché centinaia di istituti finanziari investono in tali aziende.

A ricostruire i flussi di capitali che girano attorno a questo business è la campagna Don’t Bank on the Bomb mediante il report “Risky Returns: Nuclear weapon producer and their financiers” (Ritorni pericolosi: i produttori di armi nucleari e i loro finanziatori), redatto dalla Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN) e dall’organizzazione non governativa Pax.

Quanti soldi vanno all’industria delle armi nucleari

Il report si focalizza su 24 società “fortemente coinvolte” nella produzione di armi nucleari. La prima della lista è la Northrop Grumman, con i suoi 24,3 miliardi di dollari di contratti in essere, senza contare il consorzio e le joint venture. Spiccano per il loro giro d’affari miliardario anche Aerojet Rocketdyne, Bae Systems, Boeing, Lockheed Martin e Raytheon Technologies; tutte statunitensi ad eccezione di Bae Systems, inglese ma comunque operativa Oltreoceano. Nella lista c’è anche un nome che noi italiani conosciamo bene, quello di Leonardo. Sommando i contratti in essere di queste aziende, si arriva a un totale di 280 miliardi di dollari spalmati nei prossimi decenni.

Sono 306, per la precisione, le banche e società finanziarie che in un modo o nell’altro sono legate a queste 24 aziende. Tra prestiti e finanziamenti, tra gennaio del 2020 e luglio del 2022 le hanno sostenute con oltre 746 miliardi di dollari. Esatto, miliardi. L’aumento, rispetto al precedente report pubblicato nel 2021, è pari a 61,5 miliardi. Tra il 2021 e il 2022 si è assistito a un calo di obbligazioni e prestiti, accompagnato però da un incremento delle partecipazioni azionarie.

È vero che le 24 aziende sono colossi che contano svariati rami di attività, non soltanto quelli legati alle testate nucleari. Ed è vero che un investitore ha pur sempre il potere di limitare le finalità per cui possono essere usati i suoi fondi. Ma è vero anche che questa facoltà viene esercitata soltanto in una minoranza dei casi, ribadisce il report.

La top 10 degli investitori in armi nucleari è tutta statunitense

La top 10 delle società finanziarie più generose verso i produttori di armi nucleari è tutta a stelle e strisce. In testa alla classifica c’è Vanguard con 68 miliardi di dollari nel 2022, di cui 11,5 a Honeywell, quasi 12 a Raytheon Technologies e poco meno di 10 a Lockheed Martin. Completano il podio State Street a quota 57 miliardi e Capital Group a quota 51.

La classifica continua con BlackRock, Bank of America, JpMorgan Chase, Citigroup, Wells Fargo, Wellington Management e Morgan Stanley. Basta sommare questi dieci investitori per arrivare a 386 miliardi nel 2022, più della metà del totale degli investimenti in essere. Al di fuori degli Stati Uniti, gli investimenti si mantengono su un ordine di grandezza ben inferiore. I primi nomi in cui ci si imbatte sono quelli di Mizuho Financial, BNP Paribas e Mitsubishi UFJ Financial, fra gli 11 e i 12 miliardi ciascuno.

Quali sono i nomi italiani nell’elenco dei finanziatori

Scorrendo la lista delle società finanziarie ci si imbatte anche in diverse italiane. A cominciare da Unicredit e Intesa Sanpaolo, a quota rispettivamente 4,2 e 1,5 miliardi. Contattata da Valori.it, Unicredit «conferma che i dati menzionati nel report non comportano finanziamenti di armi nucleari o dei loro componenti essenziali. Questo è in linea con la nostra policy di Gruppo per cui la banca non fornisce alcun supporto ad attività/progetti che coinvolgono armi nucleari o controverse. La stessa restrizione viene applica anche per eventuali componenti, infrastrutture e servizi chiave».

Intesa Sanpaolo fa sapere di aver formulato «l’espresso divieto di porre in essere ogni tipo di attività bancaria e/o di finanziamento connessa con la produzione e/o la commercializzazione di armi controverse e/o bandite da trattati internazionali». Tra cui, appunto, le armi nucleari. Limitando «la propria attività bancaria e/o di finanziamento, tramite gli ordinari processi aziendali, alle sole operazioni che riguardino la produzione e/o la commercializzazione di materiali di armamento ai Paesi dell’Unione europea e/o della NATO».

Sono consentite, «ma soggette a un processo di approvazione straordinario, le operazioni riguardanti Paesi non appartenenti all’Unione Europea e/o alla NATO, subordinatamente alla presenza di programmi intergovernativi con la repubblica italiana». Per quanto riguarda le operazioni creditizie, invece, per i settori sensibili tra cui la difesa «la banca ha adottato un processo di ESG & Reputational Risk Clearing». In aggiunta, «i soggetti che operano nel settore degli armamenti devono sottoscrivere l’impegno a non utilizzare i finanziamenti ricevuti per attività non consentite dalla policy del Gruppo».

Scendendo parecchio con i volumi di investimento, ci si imbatte in altre banche e Sgr nostrane: Banco BPM (547,6 milioni), Bper (279,3), Banca Popolare di Sondrio (158,5), Anima (14,6) e altre. Tutte figurano tra gli investitori soltanto di una società: Leonardo.

Il ruolo ambiguo di Leonardo

Valori.it ha raggiunto i vari istituti finanziari citati e ha verificato le loro policy sugli armamenti. Anima Sgr conferma che alcuni titoli emessi da Leonardo possono essere presenti nei fondi, ma solo in quelli non classificati come articolo 8 e articolo 9 sulla base del regolamento europeo SFDR sulla finanza sostenibile.

Spiega anche di «aver attivato nel 2022 un engagement collettivo con Leonardo per comunicare che il coinvolgimento nelle armi nucleari (anche se non diretto, come nel caso in questione) preclude l’investimento in titoli del Gruppo a numerosi portafogli che adottano specifiche esclusioni ESG». Chiedendole quindi di «valutare la possibilità di disimpegnarsi da tali attività controverse». La società però le ha risposto di «operare nel pieno rispetto di leggi e trattati internazionali». E di «non essere coinvolta in maniera diretta nella produzione di armi nucleari o parti essenziali di esse e che la segnalazione degli info provider dipende dalle metodologie da essi adottate».

Ma quindi Leonardo le fabbrica o no, le armi nucleari? Non in prima persona, ma detiene una quota importante (pari al 25%) della joint venture MBDA-Systems. Si tratta del primo produttore dei missili aria-superficie ASMP-A e dei missili ASN4G, destinati a sostituirli entro il 2035. Tecnologie che dunque non sono generiche ma, al contrario, specificamente progettate per trasportare le testate nucleari dell’arsenale francese.

Cosa ne pensano gli azionisti critici

«In questo caso specifico, bisogna tenere presente chi è Leonardo. Una tra le prime dieci aziende italiane per fatturato, di proprietà del ministero dell’Economia e delle Finanze per il 30%. Per banche così importanti, sarebbe molto complesso non avere relazioni commerciali con un’azienda del genere», spiega Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica, che fa azionariato critico da anni anche con la stessa Leonardo.

«Segnaliamo però che un conto è essere un’azienda nel settore militare (ramo che oggi genera l’83% del fatturato di Leonardo, una quota in crescita rispetto al 68% del 2017), un conto è essere coinvolta in alcuni progetti di armamenti controversi come quelli nucleari». Tanto più perché essi, così come le bombe a grappolo e le mine antipersona, sono stati esplicitamente proibiti da un accordo internazionale, cioè il Trattato di proibizione delle armi nucleari; l’Italia non l’ha firmato né ratificato, ma esiste ed è giuridicamente vincolante per chi l’ha sottoscritto.

Per gli investitori la questione non è semplice da smarcare. Perché Leonardo autocertifica di non produrre testate e quindi risulta coerente con le loro policy. A guardare bene, però, il legame – per quanto indiretto – esiste. 

Simone Siliani invita a usare come termine di paragone la legge 220/2021, con cui lo Stato italiano vieta di finanziare le imprese coinvolte a qualsiasi titolo nel business delle mine antipersona e delle munizioni a grappolo, ma non solo: anche delle loro singole parti. È un caso differente, perché si parla di una legge dello Stato e non della policy di un privato. Ma la logica è lineare e potrebbe essere presa ad esempio: i sistemi di arma complessi sono formati da tanti componenti, verosimilmente realizzati da società diverse. Se si vuole davvero smettere di finanziarli, bisogna escludere tutti gli elementi di questa galassia. «Mutatis mutandis, perché non applicare questo principio anche alle armi nucleari?», propone Siliani.

«Chi finanzia Leonardo chieda risposte più convincenti e meno sbrigative»

Tanto più perché «le policy delle banche sono migliorate molto nel corso degli anni. Una realtà come Bper per esempio ha escluso la Turchia dalla propria white list di Paesi di destinazione degli armamenti perché, pur essendo Paese Nato, vi ravvisa violazioni dei diritti umani. Questo è un grande passo avanti», conclude. «Il nostro lavoro, come Fondazione Finanza Etica, non è quello di pretendere cambiamenti radicali dall’oggi al domani, bensì di dialogare con queste grandi banche per aiutarle a trovare sempre migliori equilibri. Un dialogo che finora è stato molto positivo, cosa che ci fa nutrire fiducia per il futuro».

Ciò detto, conclude Siliani, «Leonardo si assume una grande responsabilità nel dichiarare che la società non partecipa alla produzione di un sistema d’arma nucleare partecipa alla fabbricazione del solo vettore/missile. Così facendo Leonardo rischia di autodichiarare una cosa non vera. Senza voler mettere in discussione le procedure interne e l’autonomia delle valutazioni compiute dagli istituti di credito che finanziano l’azienda, ci aspettiamo che quanto meno venga sollevato il problema, da parte loro, con la stessa Leonardo Spa, ingaggiandola al fine di ricevere risposte più convincenti e meno sbrigative di quelle fin qui date».


Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con il magazine on line Valori.it

 https://comune-info.net/chi-finanzia-le-testate-nucleari/