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Lo smantellamento neoliberista dell’università pubblica

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Alessandra Ciattini

In questa dura e asfissiante era covidica qualcuno ha scritto un sarcastico Elogio del covid, nel quale auspicava che la nostra cialtrona classe dirigente, dinanzi al terribile disastro da lei stessa provocato con l’ormai dimenticata spending review, si sarebbe ravveduta ed avrebbe provveduto a riparare i danni, investendo risorse nel sistema sanitario e in quello dell’educazione strettamente connessi tra loro. Purtroppo un auspicio del tutto condivisibile ma a tutt’oggi inascoltato.

Ripercorrendo la storia degli ultimi decenni abbiamo visto che il neoliberismo ha sferrato un attacco contro lo Stato sociale, contro l’immorale e improduttivo assistenzialismo, contro tutte le politiche di sostegno economico-sociale ai lavoratori, contro l’”assurda pretesa” di avere un lavoro stabile. Naturalmente questo attacco ha coinvolto i vari livelli del sistema educativo, dalla scuola dell’infanzia all’università; sistema la cui funzione è quella di preparare gli individui alla vita sociale e politica, nella quale dovrebbero imparare a muoversi come agenti consapevoli. Questo colpo si è riversato anche sul sistema sanitario nella misura in cui è collegato al primo.

Il risultato è stato proprio lo snaturamento complessivo della funzione del sistema educativo, che del resto non era mai stata svolta pienamente; si pensi solo alla perenne inadeguatezza delle risorse per garantire il diritto allo studio.

Vediamo i passi più importanti di questo processo. La prima mossa in questa direzione è stata la mercificazione dell’istruzione e della formazione decisa, insieme a quella di altri servizi (comunicazione, trasporti, salute, cultura, turismo etc.), nel 1995 dal GATS (General Agreement on Trade in Services) (V. de Siqueira, http://www.jceps.com/wp-content/uploads/PDFs/03-1-02.pdf).

Sempre nella stessa prospettiva è andata la riduzione degli investimenti pubblici nell’istruzione[1], seguendo quella linea che già aveva indicato Adam Smith nella sua celebre opera (La ricchezza delle nazioni, 1776), come ci ricorda sarcasticamente Karl Marx: «Per impedire la completa atrofia della massa del popolo, derivante dalla divisione del lavoro[2], A. Smith raccomanda l’istruzione popolare statale, seppure a prudenti dosi omeopatiche». Ossia ridurre al minimo il percorso di formazione della maggioranza dei giovani, fornendo loro solo quelle nozioni indispensabili all’attività lavorativa da svolgere, piegando così il processo di acquisizione delle conoscenze alle esigenze del mercato del lavoro ed inevitabilmente privandolo della sua ricchezza.  Ciò nonostante, sia per l’alta specializzazione ad essa inerente sia per le continue innovazioni tecnologiche l’industria capitalistica necessita di lavoratori versatili che ricevano un’istruzione nella tecnologia e nell’impiego pratico degli strumenti di produzione in scuole specifiche. Tale contraddizione si risolve col destinare a questa formazione solo un piccolo gruppo di giovani, i futuri tecnocrati, i quali si troveranno a dirigere una massa di lavoratori dequalificati, sempre più precari e ricattabili.

Da sottolineare che con queste decisioni si sono scaricati i costi dell’educazione sui lavoratori e le loro famiglie, risparmiando così sui servizi sociali.

Parallelamente a questo processo si è realizzata anche la trasformazione in base alla quale le università non debbono più elargire conoscenze ma competenze, le quali per loro natura sarebbero misurabili e quindi permetterebbero di valutare la capacità di un certo individuo di svolgere una certa attività.

L’introduzione di questa nozione sarebbe necessaria perché finora la conoscenza ha riempito la testa degli studenti solo di nozioni astratte senza tenere in vita il loro legame con la pratica. Naturalmente dai tempi di Socrate nessuno ha mai pensato di separare la teoria dalla pratica, dato che, in tutte le discipline sia umanistiche che scientifiche, conoscere un concetto significa essere capaci di utilizzarlo per risolvere problemi concreti anche complessi. Inoltre, la convinzione della misurabilità delle competenze, largamente sostenuta dai “riformatori” e tradotta nel sistema dei crediti, è priva di qualsiasi fondamento, giacché essa è smentita dalla variabilità individuale e non è mai stata individuata un’unità di misura oggettiva. Né è chiaro ai suoi fautori in cosa consista in sé la competenza giacché di essa si danno decine di definizioni. Oltre a ciò, trattandosi di processi eminentemente qualitativi e non quantitativi, più che di misurazione si potrebbe parlare unicamente di “stima”, la quale inevitabilmente coincide con una valutazione dai caratteri soggettivi e assai variabili.

Tra le competenze, individuate dall’Unione Europea, che si dovrebbero acquisire attraverso lo studio universitario e che disvelano il loro carattere pragmatistico e aziendalistico, oltre che brillare per la loro vaghezza, genericità, arbitrarietà, ricordiamo: 1) professionalismo, inteso come capacità di proporre sfide e di mostrare fiducia in sé; 2) la capacità di programmare, che si concreterebbe nello spirito di iniziativa e nella flessibilità; 3) la capacità di entrare in relazione, ossia essere in grado di persuadere e di influenzare.  Insomma, il sistema educativo dovrebbe sfornare tutti “piccoli imprenditori” capaci di autopromuoversi.

La nozione di competenza rimanda anche ad un altro aspetto delle riforme neoliberiste del sistema educativo, ossia alla famosa questione della relazione educazione-lavoro. Ora è importante sottolineare che vi sono vari modi di intendere tale rapporto; nella tradizione marxista tre sono i pilastri dello sviluppo onnilaterale dell’uomo: educazione – lavoro – attività fisica, i quali debbono essere sviluppati contemporaneamente e non per scopi a loro esterni, ma solo per dar corpo allo sviluppo di tutte le potenziali capacità dell’individuo.

Ben diversa è l’università che ci viene consegnata oggi dalle politiche neoliberiste e dalla crisi provocata dalla pandemia, indirizzata al perseguimento di fini ad essa esterni e funzionali agli interessi dei grandi gruppi[3], che necessitano di personale plasmato in maniera unilaterale per svolgere certe specifiche funzioni e di ricerche che indirizzino verso la produzione di oggetti vendibili sul mercato. E necessitano anche di forza-lavoro in formazione da inserire nei processi produttivi senza nessuna remunerazione con la scusa di elargire un servizio ai giovani, che dovranno trovare un’occupazione. Tuttavia, tutti questi vantaggi non sono sufficienti agli esponenti della Confindustria, i quali con l’accantonamento della ricerca di base e l’enfasi su quella applicata, la professionalizzazione dell’università, la presenza di privati nei consigli di amministrazione degli atenei, imposta dalla legge Gelmini hanno ottenuto così che la ricerca sia orientata a soddisfare le esigenze delle piccole e medie industrie tipiche del tessuto economico italiano. E ciò perché queste ultime non sono in grado di svilupparla e pertanto necessitano che le istituzioni pubbliche la facciano per loro.

Tracciato questo deludente quadro vediamo le misure che sono state prese dal governo in carica per risollevare il sistema educativo e sanitario nazionale negli aspetti in cui quest’ultimo dipende dal primo, richiamandoci a un documento dell’Associazione nazionale docenti universitari.  

Poco o nulla nella Legge di bilancio 2021 c’è per il diritto allo studio, per i precari (probabilmente oltre 50.000), per il reclutamento, per gli avanzamenti di carriera. Invece sono stati stanziati 84 milioni (+44%!) per le università private e 10 milioni per Invitalia, Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa di proprietà del MEF.  Dei 500 milioni l’anno stanziati per università  20 milioni per 2021 e il 2022 saranno destinati alle imprese creative  e in particolare allo sviluppo della relazione atenei/imprese. Non si prevede il rinnovo del contratto del personale tecnico-amministrativo.

Non è stata manifestata nessuna intenzione di abolire il numero chiuso nei corsi di Medicina e Chirurgia, di Scienze delle professioni sanitarie, Scienze della formazione primaria etc. e ciò nonostante l’Organizzazione mondiale della Sanità abbia segnalato che mancano all’Italia circa 50.000 medici e 50.000 infermieri, che ci avrebbero certo fatto comodo in questi mesi. Dirò di più, nella lettera che accompagna la Legge di bilancio, si prefigurano già tagli di 300 milioni al sistema sanitario ormai completamente disastrato e privatizzato (18 ospedali chiusi in Calabria!), giustificati dalla futura (?) digitalizzazione della Pubblica Amministrazione.

Inoltre, il simpatico Sig. Renzi è tornato su alcuni temi che gli son o assai cari: abolire il valore legale del titolo di studio, far scegliere il rettore dal Consiglio di amministrazione e non più farlo eleggere dalla comunità universitaria, sia pure in forma ridotta come avviene ora, sottrarre l’università dai vincoli della pubblica amministrazione restituendole autonomia e applicare il Job Act agli atenei. L’attacco all’università pubblica è perfettamente in linea con quello contro la scuola, in corso da anni, e ha il deliberato obiettivo di cancellare l’idea stessa di un’università di qualità, democratica, aperta a tutti e diffusa nel Paese.

Quanto al Recovery Plan esso mette a disposizione oltre 8 miliardi per il capitolo “Dalla Ricerca all’impresa”.

Come si vede, nonostante la pandemia e tanta retorica, non si vuole cambiare rotta, anzi si intende persistere nelle stesse direttive economiche ed ideologiche adottate negli ultimi decenni da tutti governi, quale fosse il loro orientamento politico (V. https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/un-bilancio-2021-di-assistenza-alle-imprese).

 

 

 

 

[1] In Italia è cominciata con l’art. 5 della legge 537/1993, che si fondata sull’autonomia universitaria che ha fatto di ogni università un ente indipendente dotato di propria personalità giuridica, che gode di un’autonomia normativa, finanziaria, didattica, di ricerca (legge 168/1989, art. 6).

[2] Tra lavoro intellettuale e manuale e tra le singole funzioni dell’operaio dell’industria.

[3] In Italia la famosa Treelle (Life Long Learning) patrocinata dai grandi impresari italiani che ha fortemente influenzato le politiche educative degli ultimi decenni.

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