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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

(K. Marx)

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Non beatifichiamo Mario Tronti

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Non beatifichiamo Mario Tronti

Sono trascorsi alcuni giorni dalla morte di Mario Tronti e sinceramente non volevamo apparire tra i suoi detrattori da tastiera o in alternativa essere annoverati nella schiera degli esaltatori fermi agli scritti di 50 anni fa.

Se operai e operaismo non possono essere equiparati, al contempo la parabola discendente del Tronti Politico l'ha portato a scelte non solo incoerenti ma del tutto illogiche all'insegna del peggior moderatismo giustificazionista.

A chi scrive sarebbe sufficiente il voto in Parlamento a favore del jobs act per chiudere il discorso su Mario Tronti, puoi anche avere scritto le migliori pagine di critica alla realtà tra gli anni ’60 e ’70 ma se nei 50 anni successivi hai discettato sulla contraddizione tra lavoro e capitale scegliendo la rappresentanza politica di quest'ultimo dovresti, per decenza e umanità, finire nell'oblio.  

 Anni or sono  Maria Turchetto scrisse un bell' articolo importante, forse troppo tranciante e assai critico verso la parte conclusiva della esperienza operaista, articolo recentemente riproposto dalla rivista Antiper (Maria Turchetto | La sconcertante parabola dell'operaismo italiano | Antiper), dedicato all'esperienza teorica dell'operaismo italiano e alle continue evoluzioni dello stesso.

Perché a partire dai testi Marxiani si sono susseguite interpretazioni e letture che hanno finito con l'annullare o svilire la contraddizione tra capitale e lavoro che per noi resta centrale seppure insieme ad altre.  

 Citiamo testualmente Maria Turchetto

 “Di fatto, oggi l'”operaismo” italiano è soprattutto questo riferimento impoverito, questa raccolta di parole che tiene il posto di una teoria e che regala unità e identità apparenti a posizioni confuse, ostaggio di volta in volta delle mode culturali o delle nostalgie. Tuttavia, questa resistenza, questa capacità di sopravvivere e di offrire almeno l’evocazione di un pensiero diverso nei tempi bui del pensiero unico, segnalano una forza originaria che va presa sul serio”.

 Il vero problema è rappresentato dalla incapacità del corpo militante residuale di aggiornare le letture di Panzieri, Tronti, Alquati, fare i conti insomma con le trasformazioni del mondo produttivo e del capitale stesso senza innamorarsi di formule precostituite.

Di acqua sotto i ponti ne è passata fin troppo da quando ritenevamo ineluttabile lo “sviluppo delle forze produttive” verso il comunismo. Spesso si è parlato della iniqua distribuzione della ricchezza sociale, una tendenza che negli ultimi 40 anni neoliberisti ha preso il sopravvento spingendo alcuni autori a ipotizzare una sorta di nuova distribuzione delle ricchezze come ancora di salvezza dell'intero sistema.

Per essere ancora più chiari la idea che rimuovendo il neoliberismo diventi accettabile la stessa organizzazione capitalistica della produzione ha portato interi settori del movimento sindacale e politico, gli stessi movimenti su posizioni di mera denuncia dell'esistente perdendo di vista una prospettiva radicale di rottura e cambiamento. 

 Forse ci siamo illusi sull'utilizzo alternativo (da parte della classe operaia) delle macchine optando per una critica radicale, ma senza via di uscita, al dominio “dispotico” del capitale.

Senza entrare nel merito degli scritti corposi di autori come Renato Panzieri dobbiamo domandarci come oggi avvenga l'estrazione del plusvalore per poi comprendere come il capitalismo si sia evoluto nei paesi un tempo del terzo mondo e in quelli cosiddetti avanzati.

 Se riduciamo il capitalismo a proprietà privata e al mercato non si capisce 

la odierna organizzazione del lavoro e allora tocchiamo con mano una lettura parziale e piena di lacune della realtà contemporanea. 

Gli orfani dell' ”operaio massa”  e del soggetto produttore del “neocapitalismo” hanno iniziato da 40 anni una parabola teorica e politica decadente  e la loro lettura, senza generalizzare, dell’organizzazione capitalistica del processo produttivo è finita talvolta con liquidare la stessa condizione operaia e la lotta della classe per scegliere invece di confluire nei cosiddetti movimenti che a nostro avviso palesano contraddizioni non minori di altre esperienze politiche.

Forse non siamo riusciti a capire, o ce ne siamo accorti con grandissimo ritardo, che la presenza dei migranti poteva rappresentare una contraddizione analoga a quella dei giovani meridionali arrivati negli anni Sessanta nelle grandi fabbriche del Nord, alla prospettiva di rottura si è sostituita quella della integrazione e le posizioni sul fenomeno immigratorio sono finite nell'alveo dell'assistenzialismo pur con rare e meritevoli eccezioni come quelle delle lotte nella logistica.

Nell'epoca neo liberista alcune categorie come quelle della professionalità e del merito hanno preso il sopravvento indebolendo la critica radicale all'esistente e la stessa conflittualità sindacale e sociale, venute meno le grandi fabbriche fordiste il settore dei servizi è diventato determinante ma anche l'idea che alla fine il lavoro autonomo di ultima generazione rappresentasse una sorta di via di uscita dal tradizionale sfruttamento della forza lavoro e qui sono iniziate innumerevoli contraddizioni.

Anche la guerra e il ricorso permanente ai conflitti armati da parte delle potenze imperialiste si sono dimostrati argomenti dirimenti, dominando la confusione teorica ed ideologica ci siamo noi stessi assuefatti a questa sorta di neo keynesimo di guerra e alla strisciante militarizzazione del corpo sociale, delle scuole e delle università. Non a caso molti degli orfani dell'operaismo continuano a rappresentare il mondo con logiche imperiali da un lato o ricorrendo ai tre imperialismi (russo, cinese e statunitense) in lotta tra di loro per il controllo del Globo.

Per tornare e chiudere su Mario Tronti , l'organizzazione  capitalistica della fabbrica era giudicata portentosa e tale da estendersi progressivamente all’intera società, questa analisi ha portato alla ricerca di nuovi soggetti conflittuali che nel corso del tempo si sono scissi dalle contraddizioni reali (l'immigrato ad esempio diventato preda dello sfruttamento selvaggio della forza lavoro o rinchiuso nelle comunità oppure oggetto di morbosa attenzione da parte di associazioni, terzo settore.....)

Manca insomma una strategia rivoluzionaria complessiva che vada oltre all'esaltazione da tastiera dello spontaneismo delle lotte operaie (e questo spontaneismo è venuto meno da tempo con la crisi dei soggetti conflittuali organizzati) ma anche una lettura aggiornata del rapporto tra mondo produttivo e società e questo aspetto era per altro sottovalutato dallo stesso Tronti e invece criticato da Renato Panzieri. 

E forse il modo migliore per affrontare l'esperienza passata è quella di leggerla senza manicheismi, senza la pretesa di sposare le tesi di un autore in antitesi ad altri e men che mai incensare qualche autore attribuendogli, a prescindere dai processi di trasformazione, ruoli e compiti preveggenti per il tempo presente e il futuro.

Ripartiamo dalle esperienze acquisite senza costruire altarini ma per decifrare la realtà contemporanea e rilanciare processi di rottura e cambiamento radicale

A cura della redazione pisana di Lotta Continua.

(Da: https://delegati-lavoratori-indipendenti-pisa.blogspot.com )

 

 

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