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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

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L’operaio massa e la rivolta di piazza statuto (7-8-9 luglio 1962)

L’operaio massa e la rivolta di piazza statuto (7-8-9 luglio 1962)

Di Giuseppe Muraca.
Negli anni del boom economico una nuova schiera di operai venne assunta dalle imprese industriali del nord, proveniente dal mezzogiorno e dalle aree più depresse del nostro paese. Si affermava un nuovo tipo di operaio, il cosiddetto “operaio massa” (molto diverso dal vecchio operaio di mestiere), senza qualifica e non sindacalizzato.
Allora la FIAT era la più grande industria italiana, ma gli operai alla catena di montaggio erano costretti a lavorare in uno stato di totale isolamento, in un ambiente altamente nocivo e sottoposti a ritmi massacranti. <> (Testimonianza di Luciano Parlanti, in G. Polo, I tamburi di Mirafiori, Torino, CRIC, 1989). Il lavoro in fabbrica era quindi motivo di grave sofferenza e di alienazione. <> (D. Giachetti, Oltre il sessantotto. Prima, durante e dopo il movimento, Pisa, Edizioni BFS, 1998, p. 67). Cresceva così il malessere degli operai che spesso si tramutava in rabbia come segnale di una condizione ormai insopportabile, che a volte sfociava in veri e propri atti di violenza. <> (AA. VV., L’immaginazione e il potere, Roma, Editoriale L’Unità, 1998, p. 79).
Nel 1962 scadeva il contratto nazionale dei metalmeccanici e i sindacati confederali prepararono una piattaforma che prevedeva, tra l’altro, la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, il prolungamento del periodo di ferie, la riduzione del cottimo e dello straordinario, la possibilità da parte del sindacato di contrattare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Nelle prime giornate di sciopero la partecipazione dei lavoratori fu abbastanza scarsa, ma lo sciopero indetto dalla FIOM e dalla FIM per il 7 di luglio registrò una massiccia partecipazione degli operai della FIAT: nella maggior parte delle fabbriche i picchetti bloccarono completamente la produzione, alcuni dirigenti vennero malmenati e davanti ai cancelli la polizia non riuscì a mantenere la calma. La Uil e la SIDA (Il sindacato padronale) siglarono subito un accordo separato con la direzione della FIAT, ma un gruppo consistente di lavoratori reagì a questo “tradimento” e si diresse verso piazza Statuto, dove si trovava la sede della UIL, per protestare energicamente. Subito intervenne la polizia che nel primo pomeriggio caricò un gruppo di manifestanti, che rispose all’attacco. La manifestazione diventò sempre più violenta, e per tre giorni la piazza torinese fu teatro di un duro scontro “tra dimostranti e polizia: i primi, armati di fionde, bastoni e catene, ruppero vetrine e finestre, eressero rudimentali barricate, caricarono più volte i cordoni della polizia; la seconda rispose caricando le folle con le jeep, soffocando la piazza con i gas lacrimogeni e picchiando i dimostranti con i calci dei fucili. Gli scontri si protrassero fino a tarda sera sia sabato 7 che lunedì 9 luglio 1962. Dirigenti del Pci e della Cgil, tra i quali Pajetta e Garavini, cercarono di convincere i manifestanti a disperdersi, ma senza successo.” (Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 99). Il Partito comunista, la Camera del lavoro e la Cgil condannarono la rivolta degli operai; la stampa locale e nazionale li dipinse come ribelli, “teppisti” e “provocatori”. Anche il gruppo dei “Quaderni Rossi” condannò la violenza di piazza, ma in seguito, in un volantino rivolto agli operai della Fiat, chiarì meglio la sua posizione scrivendo: <>. (Cronache e appunti dei “Quaderni rossi”, p. 92).
Quelle tre giornate di lotta segnarono una tappa fondamentale nella storia degli anni Sessanta e del proletariato industriale. Il bilancio complessivo dei tre giorni di scontri fu di 1251 fermati, 90 arrestati e rinviati a giudizio per direttissima, un centinaio i denunciati a piede libero; 169 i feriti fra le forze dell'ordine. Come risulterà al processo, due terzi degli imputati per le violenze di strada erano giovani immigrati meridionali.
Su quell’episodio di protesta ecco che cosa ha scritto Marco Revelli: “Cosa emerge alla superficie torinese in quel luglio 1962? […] In piazza Statuto vengono alla superficie i nuovi lavoratori della catena di montaggio, che erano un soggetto sconosciuto, per certi versi, nella Torino degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Erano un soggetto sconosciuto, che era cresciuto silenziosamente all'interno della fabbrica, ma che non aveva, fino ad allora, preso la parola né con linguaggio sindacale né per comunicare alla città la propria esistenza: erano lavoratori invisibili, o meglio: visibili solo nella forma dell'immigrato, visibili a Porta Palazzo, nei crocchi che si formavano la domenica, visibili a Porta Nuova, quando arrivavano con la valigia di cartone, visibili nel labirinto delle stanze a pagamento in cui dormivano a turno, le otto ore di notte quelli del turno di giorno e le otto ore di giorno quelli del turno di notte.
Ecco: era questo “popolo delle tenebre”, che si era formato all'interno della fabbrica e che invadeva ora la scena urbana e la invadeva nell'unica forma che conosceva, quella della jacquerie, della rivolta, ricordo dell'incendio del municipio o del lancio dei sassi. Era questo il nuovo soggetto, che poi, dopo che verrà chiuso il contratto del 1962, tornerà al silenzio per altri sei lunghi anni, e che riemergerà, in questa volta organizzata, con un proprio linguaggio, con un proprio discorso, nell'autunno caldo, nel biennio 1968-1969.” (Id., Le spie ricorrenti del disagio sociale: jacqueries, rivolte urbane, proteste giovanili, subculture della protesta, in C. Dellavalle (a cura di), Repubblica, Costituzione, trasformazione della società italiana. 1946-1996: percorsi di cittadinanza, Milano, F. Angeli, 2000.)

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Tra miseria e povertà
 

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