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L’ignobile storia dell’ex Ilva fra produzione di morte, licenziamenti, speculazioni di borsa: alla ricerca del massimo profitto

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Anni fa la popolazione tarantina scese in piazza per rivendicare la chiusura dell'Ilva: migliaia di cittadini/e stanchi di subire le conseguenze di un inquinamento devastante che aveva prodotto migliaia di tumori. Bambini/e impossibilitati a giocare all'aria aperta nei giorni di vento, un inquinamento che interessava la terra, i corsi d'acqua, un disastro ambientale che segnava il fallimento anche dell’industria nel Meridione. Il grido di allarme della popolazione tarantina non è stato raccolto. Il Movimento 5 Stelle si è fatto paladino della chiusura degli impianti raccogliendo una valanga di voti, salvo poi perdere gran parte del consenso guadagnato una volta salito al potere disattendendo gli impegni assunti. È di queste ultime settimane la decisione di Arcelor Mittal, la multinazionale dell’acciaio, di licenziare 4700 operai dell’Ilva di Taranto e svariate migliaia di operai nell'indotto. Tutto ciò avviene dopo che il Governo ha deciso di non accordare lo scudo penale consentendo alla multinazionale di evitare processi che la vedrebbero probabilmente soccombere come documentato da Peacelink e da innumerevoli articoli pubblicati da Il fatto quotidiano

Ma la fuga di Arcelor Mittal è ancora tutta da capire e probabilmente occulta l’ennesima speculazione finanziaria. Quanto accade oggi a Taranto è già avvenuto in Belgio in un altro stabilimento di Arcelor-Mittal.

Abbiamo ascoltato l'intervista di un operaio belga alle Iene che denunciava analogie tra i fatti italiani e quelli del suo paese: “Hanno regalato a Mittal le quote di CO2 per produrre, ovvero i permessi per inquinare. E Mittal se le rivende in borsa, perché c’è un mercato di queste quote”. 

 Il nuovo piano industriale di Arcelor Mittal prevede 4.691 esuberi, di cui 2.900 già nel 2020, da 10.789 occupati del 2019 passeremmo ai 6.098 del 2023.

Nel frattempo le posizioni sindacali sono prevalentemente appiattit , al di là delle divisioni interne, sulla supina accettazione dei ricatti padronali subendo, ancora una volta ,  lo scambio tra produzione inquinante e tossica con la salvaguardia dei posti di lavoro.

È proprio vero, gli ultimi 50 anni di storia non hanno insegnato nulla ai sindacati, i posti di lavoro in ogni caso non sono stati salvaguardati, i territori devastati, le multinazionali hanno avuto campo libero nell'accrescimento dei profitti.  Quanto accaduto in Puglia si è verificato già in tante altre aree del territorio italiano.

E oggi, come ieri il ruolo dello Stato è stato quello di gendarme degli interessi padronali, Silente, restio ad intervenire e a statalizzare produzioni per riconvertirle, ancorato alla salvaguardia delle logiche del profitto.

Ma nel frattempo cosa hanno fatto i sindacati?  Sono scesi in piazza per chiedere ammortizzatori sociali senza spendere una parola sulle produzioni inquinanti, disposti ad accogliere a braccia aperte ogni nuovo padrone senza mai entrare nel merito dei processi produttivi, dei piani industriali, disposti a manifestare per rivendicare gli ammortizzatori sociali nei momenti dei cali produttivi.

Pochi svelano una verità scomoda. Non si parla della crisi profonda vissuta dal settore dell’acciaio, Arcelor Mittal ha preso a pretesto la revoca dello scudo penale per abbandonare Taranto senza dimenticare che il piano industriale presentato a suo tempo non prevedeva risorse sufficienti a rilanciare la produzione e men che mai a bonificare il territorio tarantino.

Ma gli errori partono da lontano, almeno da quando nacque l'acciaieria, quasi 60 anni fa, con lo Stato che non prestò alcuna attenzione verso le ricadute ambientali. Impiantare una produzione del genere in mezzo ai quartieri di Taranto avrebbe dovuto fin da allora indurre a qualche riflessione.

Lo Stato, ergo il pubblico, preferì costruire un impianto industriale in Puglia senza mai porsi il problema dell'inquinamento, delle ricadute sulla salute della popolazione e soprattutto senza mai chiedersi se questi impianti avrebbero potuto subire una riconversione. Si è rinunciato fin dall'inizio a porsi domande scomode, erano gli anni della produzione industriale, poi i disastri ambientali hanno svelato un'altra realtà mostrando l'aberrazione di fabbriche nocive per l'ambiente e per gli operai stessi.

Negli anni Novanta sono arrivate le privatizzazioni, i vecchi boiardi di stato si sono trasformati in ferventi privatizzatori, innumerevoli manager pubblici sono passati armi e bagagli ai privati facendo lievitare gli utili degli azionisti, oppure hanno scelto di offrire i servigi alla Ue. È la storia dell'imprenditoria italiana con tante analogie a quanto accaduto nell'ex Urss. Fabbriche pubbliche svendute, fatte a pezzettini, managers pubblici presto trasformati in cultori degli utili degli azionisti a qualunque costo.

Nel 1995 l’acciaieria viene ceduta a una famiglia di industriali, la famiglia Riva, che non è mai intervenuta per la messa in sicurezza dell'impianto, anzi la manutenzione si fa sempre più carente, si acuiscono i problemi ambientali e anche la sicurezza sul lavoro diventa sempre più precaria. Sono gli anni nei quali nasce la consapevolezza che Taranto non ha bisogno della sua fabbrica della morte, tra gli stessi operai nasce la consapevolezza che si lavora per vivere e non per morire.

Nel 2012 la magistratura manda in prigione, per disastro ambientale e reati connessi, la proprietà e i massimi dirigenti dello stabilimento, che nel 2013 viene commissariato.

Nel 2016-2017, al termine di una discussa gara sotto il controllo Ue, arriva la multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, anche se l'offerta più vantaggiosa sembra sia stata formulata da un gruppo concorrente che non si sa per quale ragione sia stato scartato dall'allora governo di centro sinistra. Arcelor arriva con una promessa ben precisa fatta dall'allora Governo: la esenzione da ogni responsabilità penale per reati ambientali, quello che oggi viene definito “scudo penale”. In cambio Arcelor accetta di mettere in atto un piano di bonifica e abbattimento delle emissioni nocive, piano mai adottato e attuato per gli elevati costi.

A fine estate 2019 diventa evidente che il piano di bonifica non sarà attuato, anzi nel frattempo il settore è entrato in crisi. Il prezzo dell’acciaio è diminuito tra il 10% e il 15%, i margini di profitto sono crollati, il colpo finale è dato dalla crisi del settore automobilistico, L'Ue scopre che è assai più  conveniente importare laminati a caldo che produrli soprattutto se le emissioni “di CO2 sono nel frattempo cresciute del 230 per cento, imponendo a carico dei soli produttori europei un onere ulteriore di 45 euro per tonnellata”. ( https://www.lavoce.info/archives/62027/perche-arcelormittal-vuole-lasciare-taranto/)

Arcelor Mittal ha avuto campo libero promettendo ciò che tutti sapevano non avrebbe potuto rispettare. Poi è arrivata la crisi ambientale, lo scandalo che ha travolto le principali case automobilistiche e il crollo del prezzo dell'acciaio.

Di questo non si parla, anzi le omissioni sono sempre più evidenti e a pagare sono ancora una volta i proletari tarantini alle prese con tumori e malattie, gli operai mandati a casa da uno Stato incapace di statalizzare le produzioni e riconvertirle, da sindacati disposti a qualunque accordo per salvare una produzione anche se la merce di scambio è quella già vista: produzioni di morte, speculazioni finanziarie e giochi di borsa

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